Olga Karach - .
Olga Karach è un’attivista bielorussa, politologa e direttrice dell’organizzazione per i diritti umani “Our House” (“La nostra casa”), fondato nel 2002 come giornale autofinanziato. Candidata al Nobel per la Pace, 45 anni, è attiva nella rete dei difensori dei diritti umani e civili oppressi nel suo Paese dal regime di Lukashenko. È stata più volte incarcerata e anche torturata; sul sito del Kgb il suo nome è pubblicato nell’elenco dei terroristi. Oggi vive in esilio a Vilnius, in Lituania, da dove prosegue la sua preziosa attività nonviolenta. In queste giorni il Dipartimento lituano per la migrazione ha avviato il processo di estradizione in Bielorussia di suo marito, il giornalista Oleg Borshevskij.
La sua vita di giovane donna è stata sconvolta dal suo impegno in nome della pace. Quanto coraggio occorre in Bielorussia, e in generale nella società contemporanea, per esprimere il proprio libero punto di vista sulla nonviolenza?
Sì, oggi ci vuole un coraggio speciale per parlare di pace, indipendentemente dal tipo di conflitto militare da citare. La società è polarizzata e radicalizzata. Non appena si dice qualcosa sulla pace, si inizia a essere perseguitati, sospettati dei peccati peggiori, e le conseguenze non sono così innocue. La cosa più sorprendente è che ciò accade non solo nei Paesi baltici, che ora si appoggiano fortemente all’estrema destra, ma anche nei Paesi dell’Europa occidentale. Vediamo quale forte attacco viene lanciato oggi contro la Chiesa cattolica, ad esempio, solo perché il Papa ha detto che i negoziati sono importanti e necessari. Qualcosa sembra esserci rotto nel sistema europeo di valori e nelle già inespresse regole dei diritti umani. Dove è finita la libertà di parola, di cui tutti erano orgogliosi? Perché il dialogo politico si è trasformato in un punto di vista dominante, mentre altri punti di vista sono etichettati a priori come sbagliati? La cosa peggiore è che non abbiamo notato come, in due anni, la cultura europea sia radicalmente cambiata da una cultura di pace e nonviolenza a una cultura di violenza e romanticizzazione della guerra. I bambini vengono militarizzati, la società parla in termini militari. I politici stanno cercando di manipolare l’opinione pubblica e infiammare la situazione. Ma la cosa spaventosa è che piace a molti. La cultura della violenza getta via il bisogno di tolleranza, di rispetto per la diversità e, in generale, di accettazione di quella diversità. È diventato del tutto normale giustificare i problemi legati alla democrazia, al mancato rispetto dei diritti umani, alla discriminazione contro alcuni gruppi sociali dicendo che “siamo in guerra”. Abbiamo una crisi economica? Ecco pronta la risposta: “Che cosa pretendi? Siamo in guerra. Non hai abbastanza soldi per le spese di base? “Cosa vuoi, siamo in guerra”. Discriminazione contro i rifugiati? “Ma siamo in guerra! E così via. Questa è una spiegazione semplice e una risposta semplice a tutte le domande, che porta al fatto che i problemi esistenti non vengono risolti, ma congelati. Le tensioni stanno aumentando nella società europea e vedo che, senza promuovere attivamente una cultura di pace e non violenza, molti problemi non saranno mai risolti.
Olga Karach - .
Perché oggi, per una parte dell'opinione pubblica, esprimere la propria opinione contro il ritorno del tempo di guerra, in Europa, è così complicato? Non ha l’impressione che l’Europa rinneghi se stessa?
Penso che la risposta abbia a che fare con molti fattori. Andiamo al ragionamento sull’Europa che rinnega se stessa. In primo luogo, la società ha abbellito il concetto di guerra per molti anni, anche attraverso vari giochi per il computer. La romanticizzazione della guerra e della violenza è facilitata dai social network. Ho osservato come, all'inizio della guerra in Ucraina, molti giovani russi andassero in guerra perché, nella loro testa, la guerra “non era reale“, era qualcosa di divertente: è divertente se uccidi tutti e vinci. È come un film o come se tutto fosse “falso”. In secondo luogo, ma stranamente, si è scoperto che gran parte della società (non solo russa, ma anche ucraina ed europea in generale) vuole combattere. La guerra piace moltissimo perché rende tutto molto spicciolo, senza profondità o consapevolezza. Nella logica militare, chi è più forte ha ragione; chi ha più armi ha ragione. La guerra ci riporta a quegli atteggiamenti patriarcali e archetipici contro i quali le donne in particolare, ma anche i gruppi Lgbtq+, hanno combattuto così a lungo e con coraggio Invece, nel tempo di guerra, è tutto schematico, delineato, senza sfumature. Nella romanticizzazione della Guerra, lo schema è questo: un uomo combatte con un'arma in mano, una donna lo ispira alla guerra. Uomo e donna sono definiti e distinti. Semplificati e ridotti a pura forza. Per molti la guerra dà sollievo, perché diventi qualcuno che ricopre un certo ruolo con certe funzioni, non devi decidere nulla, non devi scegliere, tutto è già definito. Non diventi una persona, ma un ruolo e non hai libertà di scelta. Ma a quanto pare, la libertà di scelta è un fardello pesante e la società ne è stanca. La guerra toglie quella libertà di scelta e molte persone ne sono sollevate. Insomma, tornando alla sua domanda sull’Europa, possiamo dire che sì, l’Europa oggi nega la resistenza non violenta, il ruolo della pace, la complessità di pensiero.
Che Paese è, oggi, la sua Bielorussia?
In Bielorussia non c’è la guerra, ma non c’è nemmeno la pace. Sono in corso brutali repressioni contro cittadini pacifici, compresi preti e parrocchiani. Il regime bielorusso utilizza tutte le leve e gli strumenti per reprimere il dissenso e si scaglia, ancor più violentemente, contro le donne. Ogni giorno qualcuno viene arrestato; non conosciamo nemmeno il numero esatto dei prigionieri politici. Ufficialmente se ne conoscono circa 1500, ma in realtà sono molti di più.
E la repressione dei religiosi a cui accennava?
Non si tratta solo di arresti. Ad esempio, ai prigionieri politici religiosi non è consentito ricevere la visita dei preti nelle carceri. Il credente cattolico Nikita Emelyanov ha dovuto fare uno sciopero della fame, in prigione, per protestare contro il fatto che non gli era permesso vedere un prete, finché ha poi potuto ricevere la visita del vescovo Aleksander Jaszewski. Nei centri di custodia cautelare e nelle carceri l’amministrazione non è autorizzata a inviare libri di preghiere, la Bibbia e altra letteratura religiosa.
La nomination al Nobel l’ha aiutata nelle sue iniziative e nella diffusione del suo messaggio?
È un grande onore essere nominata per il Premio Nobel per la pace, così come ricevere nel 2023 il Premio internazionale Alexander Langer. Si tratta di un’occasione unica per parlare della situazione in Bielorussia, della violenza e della tortura e per sollevare il tema dell’assistenza agli obiettori di coscienza nella nostra regione. Si tratta di una campagna strategicamente rilevante: la guerra non può continuare se gli uomini si rifiutano di entrare in guerra. Tutti possono farlo, e la scelta personale di ognuno ha un impatto colossale sulla guerra e sulla militarizzazione. Ci vuole coraggio anche per rifiutarsi di andare in guerra, perché la società è strutturata per la guerra. Ma credo che oggi l’ultima parola spetta agli obiettori di coscienza e ai disertori, e il nostro compito è aiutarli e aiutare coloro che oggi esitano a diventare obiettori di coscienza. Non è facile, perché gli obiettori di coscienza della Bielorussia, dell’Ucraina e della Russia non sono accolti da nessuna parte; è difficile, per loro, soprattutto bielorussi e russi, ottenere lo status legale, e oggi l’obiezione di coscienza è criminalizzata dai governi.
C’è qualcosa che vorrebbe dire alle nuove generazioni e alle giovani donne?
Dico questo a ogni singola persona e a ogni singola donna: non tirarti indietro e non arrenderti, anche se la maggioranza non è d'accordo con te. La situazione è molto difficile: parlare di pace è diventato tossico. Le organizzazioni che lottano per la pace sono sotto attacco. Anche in Europa occidentale viene loro negato lo spazio per conferenze e il sostegno finanziario. Penso che molte persone vogliano la pace, ma abbiano paura di parlare pubblicamente. Dobbiamo essere la voce della ragione e della resistenza non violenta per quelle persone che sono stanche della guerra e vogliono la pace nelle loro case.