Miriam Coronel-Ferrer - .
Le radici del conflitto con il Fronte di liberazione nazionale Moro sono nella storia coloniale delle Filippine. Le popolazioni Bangsamoro comprendono diversi gruppi a prevalenza musulmana, la cui lotta per l’autodeterminazione nelle regioni del Sud inizia nella seconda metà nel Cinquecento, quando queste isole sono dominio spagnolo: il chiamavano “moros”, con disprezzo. Ma è nel 1969, durante la dittatura di Ferdinand Marcos che divampa quella lunghissima guerra a cui si è tentato di porre fine con molti processi negoziali fino ad arrivare all’accordo del 2014. Ad accendere la miccia, il massacro di reclute musulmane a Jabidah, sulle cui dinamiche ancora oggi si discute. Nur Misuari, nel 1972, fonda il Fronte di liberazione nazionale Moro (Mnlf) che vuole uno Stato indipendente nelle Isole Sulu, nel Mindano occidentale e nel Palawan. Da una scissione nascerà il Fronte di liberazione islamico Moro (Milf), mentre il Paese precipita in una spirale di violenza e si popola di numerose sigle di gruppi armati. Lunghe negoziazioni, tentativi frustrati, convergono nel 1996 all’accordo con l’Mnlf, e successivamente nell’Accordo globale del Bangasmoro, firmato nel 2014 con il Milf.
Sono le donne nelle comunità lacerate a ricucire legami come fossero lembi di una ferita. È a loro che Miriam guarda quando viaggia a Sud, nel Mindanao, in quella regione delle Filippine che per mezzo secolo è stata teatro del conflitto armato tra il Governo e la minoranza musulmana che vuole il suo Stato. Oltre centomila morti e una pace da proteggere, conquistata con caparbia pazienza. C’è il suo nome sull’Accordo globale sul Bangsamoro del 27 marzo 2014: Miriam Coronel-Ferrer, la prima donna al mondo a firmare la fine della guerra con un gruppo armato, il Fronte di liberazione islamico Moro (Milf).
«Parlare con le donne mi ha realmente mostrato quanto cercassero la pace, quanto la volessero»; le incontra come ricercatrice attraversando le terre dove il conflitto armato ha spaccato persino le famiglie. «È in queste comunità divise che ho visto dove risiede il grande problema» e che è necessario «cambiare la dinamica, comporre le fratture generate da decenni di guerra».
Quella di Miriam è una lunga storia di attivismo non violento iniziata molto prima, nel movimento clandestino che si opponeva al regime di Ferdinand Marcos. «Potevi essere arrestato senza mandato, e messo in carcere. C’era la tortura e vi furono molte uccisioni tra chi protestava contro l’ingiustizia, che fosse per i diritti umani, per i diritti del lavoro e così via».
Nel 1986, quando la People Power Revolution, la Rivoluzione dei Rosari, rovescia la dittatura, il Paese respira ma resta teatro di guerra. Miriam comprende, in quegli anni, che la lotta armata genera “un suo ciclo di violenza” e che è necessario un processo politico. «Ero motivata davvero dal bisogno di trovare una via d’uscita dalla guerra, dai combattimenti, attraverso un “principled process” che conducesse alle necessarie riforme». Principled process, negoziazione etica, pace con mezzi pacifici, separare le persone dal problema, creare le condizioni per il dialogo.
È questo quello che fa. Accademica, prima, nel 2012 è stata nominata capo del team governativo che ha trattato con il Milf, ed è oggi convinta che nonostante le imperfezioni, l’accordo stia dimostrando che la pace è possibile, indicando soluzioni per quei conflitti dove il nodo è l’autodeterminazione. Un accordo che ha significativamente “contribuito ad alzare il livello” rispetto al ruolo delle donne e al riconoscimento dei loro diritti delle donne. «Credo che stiamo offrendo una percezione di speranza, [mostrando] che si può fare, e alcuni modi e mezzi con cui farlo». Quello di Miriam, però, non è stato un percorso facile, che l’ha segnata, soprattutto quando meno di un anno dopo quella firma, la strage di Mamasapano, in cui morirono oltre sessanta persone, sembrò rischiare di far naufragare tutto. Ma non è stato semplice, fin dall’inizio.
Miriam Coronel-Ferrer, la sua nomina ha suscitato opposizione?
Quando il mio nome ha iniziato a circolare c’è stata una iniziale resistenza da parte del Fronte islamico di liberazione Moro perché dicevano che non erano abituati a negoziare con le donne. Ce ne erano già nel team, ma una donna a capo del panel era qualcosa di nuovo per loro. Sentivano che avrebbero avuto le mani legate perché “non discutono con le donne”. Questo è ciò che sostennero. Ma credo che alla fine la questione fu gestita bene. Lo stesso presidente ha esitato un poco: “Non sono contro le donne, ma le tue controparti sono pronte a negoziare con loro?”, disse. Non voleva mettere a rischio l’intero processo a cui teneva molto. Ma lo ha corso, ed anche il Milf ha corso il rischio. E alla fine siamo arrivati al risultato”.
Ci sono stati momenti durante le negoziazioni in cui sono emersi stereotipi di genere? Come li ha affrontati?
Ovviamente dovevamo muoverci in modo intelligente. Potevamo insistere, ma poi dovevamo tornare su nostri passi quando notavamo una qualche resistenza. Nei primi mesi quando proponevamo l’inserimento di disposizioni su questioni di genere o facevamo pressione perché inserissero qualche donna nella loro delegazione – poiché erano tutti uomini – rispondevano di non far loro la predica, che sapevano quali erano i loro obblighi e che erano già rappresentativi della loro comunità perché venivano da diversi gruppi etnici. Si è trattato di essere capaci di inserire [la questione di genere] quando il momento era favorevole; e abbiamo anche cercato di ammorbidire l’atmosfera. Abbiamo offerto loro cioccolatini per San Valentino, abbiamo ricordato i loro compleanni, fatto gli auguri. È stato qualcosa a cui non erano abituati con le passate delegazioni. Noi eravamo professori, venivamo dall’università. Si è trattato di creare un buon ambiente per i negoziati e lentamente far avanzare l’agenda di genere, e abituarli al fatto che “le donne fossero nella stanza”. Credo che questa sia stata la parte migliore: normalizzare la presenza delle donne nelle trattative, perché c’erano diverse donne nel nostro team, giovani e anziane, a partire dal capo del nostro segretariato, una giovane che allattava. Alla fine, hanno incluso una donna [anche loro]. In definitiva, consiste nel mostrare che è normale avere tutte queste donne e che sono realmente molto brave nel fare il loro lavoro. Come si può raggiungere questo risultato se c’è una iniziale diffidenza? Costruendo una relazione umana, la fiducia, per poi entrare al cuore delle questioni.
Nel testo dell’accordo sono state inserite disposizioni che si riferiscono alla questione di genere. Quanto peso hanno giocato le parole utilizzate nei negoziati?
C’era la questione della non-discriminazione. E secondo il testo della Dichiarazione universale dei diritti umani è non-discriminazione in base a provenienza entica, classe, sesso. “Non usiamo la parola “sesso” – dicevano – perché alcuni ulama potrebbero non sentirsi a proprio agio con la parola “sesso” nel documento. Ci hanno chiesto una parola differente e noi abbiamo proposto “genere”. L’altra fu “sostanziale”, sostanziale partecipazione politica delle donne. Volevano sapere che cosa intendessimo con “sostanziale”, volevano sapere in che cosa si sarebbero impegnati (per esempio un sistema di quote?) e c’è stata tanta discussione. Abbiamo strutturato l’intera idea dei diritti della donna come una variazione dei diritti delle minoranze per cui loro stavano combattendo. Conoscevano quel linguaggio. L’intero concetto di parità tra maggioranza e minoranza è stato traslato nella parità tra i sessi o i generi.
Lei crede che le donne contribuiscano [a dare forma all’accordo in modi diversi] anche quando non si stratta di questioni di genere? Per esempio, in temi come il cessate il fuoco o il disarmo.
Si, decisamente. Il nostro gruppo tecnico sulla normalizzazione era guidato da una donna (e c’erano altre donne), e dall’altra parte erano tutti uomini ancora. Come questo ha cambiato la dinamica? La donna che era a capo del gruppo ha decisamente alleggerito la tensione mostrandosi amichevole, chiedendo loro delle loro mogli – hanno molte mogli – e delle loro famiglie. Non erano disposti a impegnarsi su nulla riguardo alle armi o ai combattenti fintanto che non fosse stato definito l’accordo politico, il che ha significato avere molto tempo senza che si andasse da nessuna parte, c’era molto tempo perché ci si guardasse in faccia e si è usato per costruire fiducia e sicurezza attraverso chiacchierate leggere, parlando della famiglia, di ciò che ha a che fare con le nostre vite piuttosto che con ciò che si stava davvero negoziando. E ce l’hanno fatta.
Lei oggi è impegnata come mediatrice delle Nazioni Unite ed è stata co-fondatrice del Southeast Asia Women Peace Mediators, quali sono le ragioni che limitano la partecipazione delle donne ai processi di pace?
Guardi ai tavoli negoziali in tante parti del mondo, in Europa dell’Est, Medio Oriente, anche in Asia. Stiamo supportando il lavoro nel processo in Thailandia del Sud. Sono tutti uomini. Se la leadership non è cosciente della questione di genere e nel nominare chi la rappresenta domina una visione patriarcale, nei gruppi armati quanto nello Stato o anche tra gli stessi mediatori non si troveranno donne capaci. Probabilmente hanno rose di [nomi] che sono solo di uomini, perché a poche donne è stata data la possibilità di mettersi alla prova. Se tenti di fare una lista, ci saranno più uomini che donne. A meno che non s’inizia a dare alle donne in modo consapevole delle opportunità non si interromperà questo circolo, la prevalenza degli uomini nella mediazione.
Cosa resta da fare per costruire una pace che duri nelle Filippine?
L’accordo di pace non può risolvere tutti i problemi. Ha sollevato molte aspettative, ma noi dobbiamo mitigare tali aspettative perché le questioni sociali e politiche, le questioni strutturali non riguardano solo la relazione tra il Paese ed una sua parte, ma risiedono nella cultura politica, nella cultura della corruzione, della violenza, della proliferazione di armi. È necessario sostenere ciò che l’accordo ha raggiunto perché ha davvero fermato la guerra più importante con il più grande ed organizzato gruppo del Paese e ha creato una infrastruttura per un governo più democratico nella regione. Ma ci sono ancora moltissime sfide. Se non si completa l’implementazione ci sarà sempre margine per il malcontento, e sta al Milf mostrare la sua etica di governo e la capacità di partecipare pacificamente alle elezioni.
Qual è stato il suo più grande risultato o la sfida più complessa? Cosa le ha lasciato questa esperienza?
Certo, il riconoscimento per un processo che ha avuto successo e il fatto di essere una donna, che è cosi raro. Ma non si vuole realmente essere incasellate solo come “una donna che ha fatto questa cosa”. Il tema è come affrontare i diversi conflitti che stanno uccidendo cosi tante persone e distruggendo le vite della generazione di oggi e di quelle che verranno: questa è la cosa più importante. Quello che abbiamo capito è che se continui a sostenere la pace, riesci a proporre approcci e strategie ovunque ti trovi, al tavolo o fuori. Non sono più al governo, ma certamente posso offrire altri contributi. Si può portare avanti il processo se si persiste, anche se serve molto tempo. Abbiamo avuto un negoziato molto lungo, ma abbiamo insistito e questa è la lezione chiave: essere capaci di perseverare e rendere il processo inclusivo, aprirlo non solo alle donne, ma alle minoranze e al pubblico. È molto importante avere il consenso dell’opinione pubblica e non è facile. Forse questa è stata la sfida più grande: avere l’opinione pubblica con noi in questo sforzo. Non era popolare, [c’erano] pregiudizi verso i mussulmani, in particolare al tempo dell’Isis, di Al Qaeda, del 9/11. Solo adesso si realizza quanto importante fosse l’accordo di pace. A volte le persone si sentono deluse perché non tutto è perfetto, ma siamo in un’altra fase e sta a noi far in modo che non si arretri.