Il giorno della laurea, per ragazze e ragazzi, a Kabul prima del ritorno del regime dei taleban il 15 agosto 2021 - Ansa
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
Il futuro lo porta in grembo. E sarà afghano. Sapeda, 33 anni, dentista, arrivata in Italia da Kabul per un master sei mesi prima della presa di potere dei taleban, non sa quando potrà tornare in patria. Lunghi capelli neri sul maglioncino rosa confetto, occhi lucidi da gestante: “Non sono una rappresentante delle donne afghane, sono una ragazza in sicurezza” si schermisce. “E non vorrei raccontare la mia storia personale, perché in questo periodo così difficile mi sembra egoista parlare di me”.
Laureata, un buon lavoro (“anche se da noi un dentista guadagna meno di un medico o un ingegnere”), felicemente sposata, genitori che negli anni 90, nel primo periodo taleban, la mandarono in Pakistan perché potesse ricevere una buona istruzione (“sono cresciuta con la nonna, nelle scuole taleban si studiano fino a 12 materie religiose”), avverte la responsabilità di essere una testimone per la sua gente. “Mia sorella mi ha detto: ho visto nell’armadio vestiti belli, ma a che mi servono? Le avevo spedito dei trucchi, mi ha chiesto: perché, se non posso usarli? Ma la cosa peggiore è che ha perso il lavoro. Non esce neanche per una passeggiata, non vuole che la sua bambina avverta che ha paura dei taleban in strada”.
Le chiediamo se dai maschi della sua generazione, almeno quelli che vivono nella capitale e hanno studiato, arriva solidarietà. “La situazione è drammatica per tutti, non ci sono soldi e anche molti uomini hanno perso il lavoro. Quando parlo con i miei coetanei li sento tristi, senza speranza. Questo Paese non cambierà mai, mi dicono. La solidarietà con le donne esiste nelle grandi città, a Kabul, Herat, Mazar. Mi ha colpito che in una città retrograda come Jalalabad mesi fa gli universitari abbiamo manifestato con lo slogan ‘Per tutti o per nessuno’ per difendere il diritto allo studio delle compagne. Ma non possiamo paragonare la nostra società all’Iran, non c’è la stessa consapevolezza”.
Negli ultimi vent’anni, però, qualcosa è cambiato. “Grazie soprattutto a Internet. Si è creata una giovane generazione pronta a lottare per l’indipendenza, la libertà, i diritti. Ma si tratta di un numero limitato di persone. In molte periferie e province c’è violenza fisica, psicologica ed economica nei confronti delle donne. Penso a quante si sono date fuoco per disperazione, ai matrimoni forzati, alle spose dell’oppio cedute anche a 6 anni ai creditori della famiglia”.
E poi le uccisioni quotidiane, in una terra dove bombe e attentati sembrano una tragica normalità. “La gente è assuefatta alla violenza. Dal 2001, sotto una patina di democrazia e di libertà garantite dagli Usa, hanno spadroneggiato i signori della droga e della guerra. Un giorno ho sentito le esplosioni di tre attentati: una prima di uscire di casa, a 500 metri da me, un’altra nei dieci minuti d’auto per andare al lavoro e la terza nel pomeriggio. Nello studio dentistico parlare dei morti in una strage era diventata un’abitudine: più dell’altra volta, a me passando sembravano meno... Perdi empatia, diventi indifferente alla sofferenza: è una difesa psicologica”.
In questi due anni in Italia, Sapeda è passata dall’ansia informativa (“ricevevo notifiche in persiano da tutti i media locali”) all’impegno pubblico con il Coordinamento italiano sostegno alle donne afghane (Cisda). “La resistenza è di chi resta in Afghanistan. Da qui possiamo solo parlare, far sapere. Chiedere ai governi di non riconoscere i taleban e di finanziare solo piccoli progetti indipendenti. Da Kabul mi dicono che la città ha perso i colori, è in bianco e nero: il nero dei taleban e del velo integrale”.