A suo modo, potrebbe stare nel Guinness dei primati. Per un «titolo» che gli fu svelato da Renato Buzzonetti, l’ex archiatra pontificio: «Si rende conto che lei è il medico più giovane ad aver mai operato un Papa?». Non se ne rendeva conto il 28enne (all’epoca, oggi di anni ne ha 48) Nicola, lucano di origine (di Tolve, Potenza), per il quale l’evento di domenica 27 ha una valenza doppia. Si colloca, infatti, a ridosso anche del 20° anniversario di un fatto che l’ha segnato: aver operato papa Wojtyla. Un destino, il suo, attraversato da quella giornata, ma che forse era scritto già nel cognome: «È Papapietro il mio – ricorda in un ufficio del Campus Bio-Medico, dove lavora attualmente –, e di quei giorni ricordo sempre la battuta che Giovanni Paolo II amava ripetere: "Il Papa, pensate, è stato curato da Papapietro"».Il dottor Papapietro era uno dei membri dello staff ristretto che il 29 aprile 1994 operò Wojtyla al Gemelli per la frattura del collo del femore destro (dovuta alla caduta del Pontefice sul pavimento bagnato del bagno, nel suo appartamento vaticano), sotto la guida del professor Gianfranco Fineschi: «Eravamo 4 in tutto: Fineschi, gli aiuti Masini e Tamburrelli e io, che all’epoca ero solo uno specializzando in ortopedia, più lo strumentista e l’anestesista». Per vent’anni non ha mai parlato, fedele alla «consegna del silenzio» imposta da Fineschi. Oggi lo fa e svela un dettaglio che sarebbe poi la sua vera "carta" per stare in un ipotetico Guinness: quanti possono dire di aver visto un Papa addormentarsi fra le loro mani? Lui sì. «Me lo trovai davanti all’improvviso – racconta – nella saletta pre-operatoria. Aveva indosso una vestaglia bianca personale, con cui l’avevano portato in ospedale, che tagliai per l’intervento. Prima mi inginocchiai, gli baciai la mano. Sorrise, ma non aveva gran voglia di parlare, era molto sofferente. Prima di intubarlo gli spiegammo che serviva una protesi per non mandare in necrosi la testa del femore. Ricordo nitidamente quello che lui disse al professor Fineschi: "Va bene, va bene, sono il Papa, non posso smettere di fare il Papa e lei deve fare tutto ciò che serve per farmi tornare a fare il Papa". Aveva già compreso che per quell’incidente avrebbe dovuto rinviare il viaggio in Sicilia che aveva in programma e allora soggiunse che offriva "la sua sofferenza per il popolo siciliano". Poi gli altri passarono nella sala operatoria per prepararsi e rimasi solo con lui, io e il Papa, 10 minuti prima dell’anestesia. Disse che una contrattura al collo gli dava dolore. Mi venne naturale reggergli la testa, per farlo soffrire meno. E pian piano lo sentii rilassarsi, poi addormentarsi: gli antidolorifici stavano facendo effetto. Rimasi così, immobile. Mi sembrò passare un’eternità». Momenti indelebili nella memoria del dottore. «A un certo punto si risvegliò e mi chiese "come ti chiami"? Aveva ritrovato un po’ di buonumore, osservò che eravamo buffi con le cuffiette verdi in testa. Poi rientrò Fineschi e al professore chiese se avrebbe potuto tornare a sciare, cosa che non potè più fare».«Ero uno di quelli di turno in reparto, quella mattina – prosegue –. Fineschi era un professore d’altri tempi, non amava i medici attratti dalle "luci della ribalta". Per questo, per evitare la "corsa" di altri nostri colleghi, decise di farsi accompagnare scegliendo due aiuti fra i più giovani e uno degli specializzandi. Ci fu comunicato all’improvviso, imponendoci però il riserbo assoluto con tutti. Ebbi solo il tempo di chiamare mia madre: "Entro in sala operatoria, guarda dopo il tg"». Fu una sorta di "voto deontologico", che solo oggi Papapietro si sente di poter sciogliere. Anche per raccontare qualcosa di quel lungo mese che Wojtyla trascorse poi al Gemelli, fino al 27 maggio. «Di lui mi colpirono moltissimo l’idea del dolore stesso come forma di preghiera. E la forza della sua preghiera, l’intensità con cui lo faceva. Ricordo che, il giorno dopo, voleva già alzarsi dal letto, per inginocchiarsi a pregare. Fineschi glielo dovette vietare. Ma qualche giorno dopo cominciò a farlo. Capitò un paio di volte di trovarlo ancora immerso nella preghiera, in ginocchio appunto: era talmente assorto che non si accorgeva di noi, in atteggiamento quasi estatico. Si può dire che, come paziente, non fu disciplinato, anche nei mesi a venire. Ma già in quel primo mese non fu fortunato, ebbe problemi legati alla ripresa della deambulazione». Non si sarebbero più rivisti, il dottor Nicola e il Papa. Di quel giorno, tuttavia, serba un ricordo prezioso. È una grande busta bianca. L’apre: ne spuntano fuori una "buffa" cuffietta verde, quella che fu messa in testa al Papa, e un paio di guanti bianchi, usati dal dottore nell’intervento. Hanno ancora delle macchie rossastre: è il sangue di Wojtyla. Il sangue di un santo che molto ha camminato sulla via del dolore.