Papa Francesco riceve i vescovi toscani in visita ad limina - Vatican Media
La Toscana come laboratorio ecclesiale. Dall’unione delle diocesi intorno allo stesso vescovo alle piccole parrocchie di montagna o di collina destinate a diventare “avamposti missionari” quando non c’è più il prete fisso, la regione è arrivata davanti a papa Francesco «con le sue fatiche ma anche con la capacità di andare oltre», spiega l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori. A portarla nei Sacri Palazzi i vescovi toscani durante la visita ad limina che per la regione ecclesiastica dell’Italia centrale è tornata la scorsa settimana, da lunedì a venerdì, dopo quella del 2013. Diciassette diocesi per quattordici vescovi a cui si aggiunge l’abbazia territoriale di Monte Oliveto Maggiore con il suo abate. Numeri che già raccontano i tre “percorsi” di unione in persona episcopi che si toccano con mano in terra toscana: quello dell’arcidiocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e della diocesi Montepulciano-Chiusi-Pienza; quello di Pistoia e di Pescia; quello di Grosseto e di Pitigliano-Sovana-Orbetello.
Un tema affrontato anche nell’incontro dei vescovi con papa Francesco martedì 4 marzo.
Quasi due ore di dialogo in cui si è parlato della «necessità di un riassetto della nostra presenza sul territorio», riferisce il cardinale Betori, presidente della Conferenza episcopale toscana. A partire dalle Chiese che condividono lo stesso pastore. «Siamo consapevoli che non è più possibile una parcellizzazione delle diocesi così come ci viene consegnata dalla storia. Ma al tempo stesso non possiamo allentare eccessivamente i legami fra il vescovo e il suo gregge – afferma l’arcivescovo di Firenze –. Il Papa ci ha ribadito che il fine non è l’annessione di una diocesi all’altra. E ci ha invitato a vivere queste esperienze in profonda comunione, guardando al futuro e non al passato. Non c’è nulla di predeterminato. Sarà il cammino compiuto che permetterà di capire quale sia la forma più consona di presenza ecclesiale. Inoltre abbiamo tenuto a sottolineare il bisogno di una convergenza interdiocesana intorno ad alcuni strumenti pastorali».
Eminenza, con Francesco vi siete confrontati anche sull’avvenire delle piccole parrocchie.
È essenziale preservare il contatto con la gente. Però non potrà restare fondato sulla capillarità delle micro-parrocchie. Il Papa ci ha esortati a valorizzare i diversi ministeri: da quello diaconale a quelli laicali istituiti. Con la preoccupazione, però, di salvaguardare il ruolo del sacerdote. Non possono esserci comunità che prescindono dalla celebrazione eucaristica come fonte e culmine della vita cristiana. Serve riorganizzare le piccole parrocchie in modo che non manchi la figura del presbitero che comunque da solo non potrà far fronte a tutte le esigenze e quindi avrà bisogno di chi lo aiuta. Questo significa fare rete sul territorio.
Come è andata l’udienza con il Pontefice?
È stata nel segno della fraternità e della paternità. Lo definirei un “botta e risposta”. E il Papa, sollecitato dalle nostre domande, ha condiviso più volte la sua esperienza di pastore in Argentina. Di fatto abbiamo parlato da vescovi a Vescovo. Lo abbiamo sentito molto vicino. E in ogni suo intervento ci ha chiesto di superare il perimetro ecclesiale, di essere Chiesa che accoglie tutti. Poi ci ha affidato quattro priorità, quattro “vicinanze”: la vicinanza a Dio nella preghiera; la vicinanza fra noi vescovi; la vicinanza ai preti; la vicinanza al popolo di Dio.
Quali altre fatiche e attese avete portato all’attenzione di Francesco e dei Dicasteri vaticani che avete incontrato?
La questione cruciale è stata quella della trasmissione della fede che si incrina anche per la labile identità cristiana delle nostre famiglie. Poi è stato analizzato il calo delle vocazioni, anche se nella nostra regione non siamo a livello zero e si registrano “chiamate” singolari. Quindi i giovani che sono al centro delle nostre agende. Più di un vescovo ha raccontato al Papa la disponibilità dei giovani ad aprirsi al Vangelo se viene loro proposto con linguaggi e modalità affini al sentire delle nuove generazioni. Poi sono state apprezzate alcune dimensioni che come Chiese della Toscana abbiamo coltivato: la missionarietà, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, la pastorale della cultura.
Quale volto della Toscana è stato presentato Oltretevere?
Siamo una regione caratterizzata dalla varietà. Abbiamo città di eccelso spessore culturale ma anche che fanno i conti con disagi non secondari tipici delle periferie e con la multiculturalità connessa al fenomeno migratorio. Inoltre la Toscana fronteggia pesanti problemi sul versante del lavoro. Sopravvivono, invece, forme significative di pietà popolare, nonostante le forti spinte di secolarizzazione, a volte più avanzate rispetto al resto dell’Italia per la radice illuministica che fra Settecento e Ottocento ha segnato gran parte della regione. Certo, abbiamo portato al Papa l’affetto della gente toscana, come in tanti ci hanno chiesto di fare alla vigilia della visita.
La Toscana è terra di campanili. Vocabolo di matrice ecclesiale. Sono una risorsa in un tempo di identità deboli o un elemento che fa chiudere le comunità nel “particolare”?
Può sembrare strano, ma qui viviamo con coraggio la comunione fra le Chiese. Il campanile rimanda prima di tutto a un radicamento forte, a fondamenta solide che sono necessarie al campanile stesso per ergersi verso il cielo. Ma dice anche che serve alzare lo sguardo. È proprio da una visione di fede della realtà che è possibile coniugare unità e ricchezza delle differenze.
Quali riflessi avrà la visita ad limina nella vita delle diocesi toscane?
Sarà un segno di speranza. Siamo chiamati ad affrontare mille problemi. E per non esserne sopraffatti o per non demoralizzarci occorre uno slancio di fiducia. Virtù che deve farsi stile delle nostre comunità e che avremo modo di sperimentare a piene mani durante il Giubileo del 2025 che, non a caso, ha per motto “Pellegrini di speranza”.