martedì 2 agosto 2022
Il religioso è scomparso in Siria, catturato da una milizia jihadista. Di lui non si sa più nulla. Il ricordo di chi ha condiviso con lui un pezzo di cammino
Padre Paolo Dall'Oglio in un'immagine di repertorio

Padre Paolo Dall'Oglio in un'immagine di repertorio - Ansa

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Paolo e io siamo fratelli. Quasi, anche perché lui tra fratelli e sorelle ne ha già otto, e credo gli bastino. Stessa età, stessa scuola, stesso gruppo scout, il “glorioso” Roma V (lui squadriglia Aquile, io Antilopi), dove ci siamo conosciuti quando avevamo i calzoni corti, e dove insieme siamo cresciuti, tra mille avventure a volte un po’ folli.

Mi capitava qualche volta dì dormire a casa sua, alla vigilia delle uscite col reparto di cui nel frattempo eravamo diventati capi, perché lui sentiva la sveglia e io no. Per cui, dopo un paio di mie affannose rincorse, meglio andare sul sicuro. Ma raramente dormivamo; io sono sempre stato di poche parole, Paolo ne aveva per tutti e due, in abbondanza, e tiravamo sempre le ore piccole. Lui già allora era un colosso di statura e stazza, non a caso il suo soprannome è Orango, io decisamente più piccolo. Fianco a fianco, come si dice, facciamo l’articolo “il”.

Credo di essere stato l’ultimo a vederlo prima che partisse, sotto la redazione romana di Avvenire, dove mi aveva raggiunto perché io non mi potevo muovere. Voleva dirmi che, contro le direttive dei suoi superiori, aveva deciso di tornare in Siria da cui era stato espulso un anno prima, quando gli avevano revocato il permesso di soggiorno.

Gli dissi, consapevole che non lo avrei mai convinto, che non mi sembrava una grande idea. Lo avevo poi cercato due o tre giorni dopo, per sapere se il viaggio era andato bene, ma il cellulare suonava a vuoto. Sparito, il 29 luglio del 2013, nove anni fa, inghiottito nella bolgia della Siria, in mezzo alla guerra civile. Da allora zero notizie, non si sa se sia vivo o morto. Evaporato, semplicemente.

Tra la Siria e Paolo Dall’Oglio è stato amore a prima vista. Travolgente. In quella notte in mezzo al deserto che ha cambiato la sua vita, passata tra le rovine del monastero di Deir Mar Musa, lui ha visto l’avverarsi di una quasi-profezia fattagli alcuni anni prima da un monaco copto ortodosso.

Credo di essere tra i pochissimi a sapere questa cosa. Paolo me l’aveva raccontata poco dopo essere entrato nel seminario dei Gesuiti.

Quell’estate era andato in Egitto, da solo, addentrandosi in quel deserto che tanto l’affascinava. Circa un mese a piedi o con pullman locali, con mille persone stipate dentro a scambiarsi sudore e parole. Solo qualche volta aveva preso il treno, preferiva non avere una destinazione precisa, e fermarsi magari in un posto che gli piaceva, che lo ispirava.

Il suo girovagare in lungo e in largo per l’Egitto lo portò un giorno a incontrare un monaco copto ortodosso, col quale si fermò a parlare. Quella chiacchierata, mi aveva raccontato dopo, finì per durare qualche giorno, con Paolo ospite del monaco. Una cosa in particolare, tra le tante che gli aveva detto il monaco, l’aveva quasi folgorato. Stavano parlando del concetto di verità, e a un certo punto il monaco gli disse: «Se cercherai la verità non per possederla, ma per servirla, Dio ti aiuterà a trovarla».

Quel viaggio in Egitto ha orientato la sua vocazione in maniera decisiva. A iniziare dalla sua decisione di farsi ordinare secondo il rito siriaco, che l’avrebbe poi portato al noviziato di Beirut. Fu fatto sfollare con gli altri ospiti quando la casa divenne il baraccone per il tiro al bersaglio dei cecchini nell’inferno della capitale libanese, straziata dalla guerra. Paolo fini a Napoli, studente dell’Istituto Orientale. Continuavamo a vederci spesso, sia a Roma, le rare volte che ci veniva, sia a Napoli. Non c’era volta che, nelle nostre lunghe passeggiate, non si fermasse a parlare con qualche immigrato mediorientale o nordafricano, ovviamente in arabo. Anche per mezz’ora.

Nel 1982, due anni prima di essere ordinato sacerdote, andò in Siria. E poi quella notte tra le rovine di Deir Mar Musa, San Mosè l’Abissino. Il “segno” che aspettava. L’avrebbe restaurato e fatto diventare un ponte tra cristiani, cattolici e ortodossi, e islam. Quel monastero in mezzo al deserto è una realtà unica. E credo, come Paolo, che davvero sia stato l’avverarsi della quasiprofezia del monaco incontrato in Egitto. Dove sei, amico mio?

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