mercoledì 23 febbraio 2022
Non ha potuto lasciare Damasco l’arcivescovo melchita Antiba: però all'incontro dei vescovi a Firenze ci saranno i nostri drammi e le nostre attese
Le strade del campo per rifugiati di Yarmouk, devastato dalla guerra, a sud di Damasco in Siria

Le strade del campo per rifugiati di Yarmouk, devastato dalla guerra, a sud di Damasco in Siria - Ansa

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Avrebbe voluto esserci a Firenze. Con il suo entusiasmo e, al tempo stesso, il realismo che nel 2020 avevano contagiato i vescovi del Mediterraneo riuniti a Bari per la prima volta nella storia. «Ma la pandemia e le disposizioni italiane sul confinamento per chi arriva da alcuni Paesi complessi non me lo hanno permesso. Però la Siria ci sarà: con i suoi drammi, con la guerra senza fine, con l’esodo ininterrotto dei cristiani, con le miserie che si abbattono ogni giorno sulla gente, ma anche con le sue speranze, la voglia di risorgere, i gesti di fiducia che si percepiscono». Ha il volto sereno l’arcivescovo metropolita Nicolas Antiba, anche se la sua voce assume a tratti il tono preoccupato. Parla da Damasco dove vive e dove è accanto a una comunità ferita che si sta assottigliando. Vicario patriarcale greco-melchita cattolico di Damasco, è stato fin da subito un testimone di quello slancio che il G20 ecclesiale per la pace di due anni fa aveva generato nelle Chiese dei venti Paesi affacciati sul grande mare. E con il suo sorriso ha accompagno la “rete di speranza” nata in Puglia, partecipando ai tavoli di lavoro online promossi dalla Cei come uno dei referenti per il Medio Oriente e come “voce” delle sofferenze di una delle nazioni più in difficoltà.

L’arcivescovo metropolita Nicolas Antiba,vicario patriarcale greco-melchita cattolico di Damasco

L’arcivescovo metropolita Nicolas Antiba,vicario patriarcale greco-melchita cattolico di Damasco - Avvenire

«Il conflitto che ha devastato il Paese – racconta Antiba – non è ancora terminato, a differenza di quanto si può credere. Infatti gli Stati Uniti e la Turchia non hanno lasciato il territorio, anche per avere sotto controllo il petrolio e il gas. Certo, le bombe non cadono più. Ma adesso manca tutto: il cibo, l’elettricità, i beni di prima necessità. Il costo della vita si è impennato e la lira siriana svalutata. Nessuno si sente protetto. La situazione è catastrofica». Una pausa. Il presule riprende fiato. «Eppure ci sono piccoli segni che sono come tenue luci nel buio della distruzione». Antiba ne indica tre e li ritiene “doni” della comunità cristiana. «Come patriarcato abbiamo appena fondato una facoltà teologica che potrà dare nuova linfa ai giovani e che è stata realizzata con l’aiuto del presidente Bashar al-Assad. Abbiamo iniziato i corsi in arabo a ottobre e sono coinvolti una cinquantina fra ragazze e ragazzi, sia seminaristi sia laici. Poi stiamo realizzando una nuova chiesa in uno dei quartieri più poveri della capitale per dare un riferimento alla gente che non ha mezzi per spostarsi. E, terzo segno, abbiamo ricostruito grazie all’Ungheria la scuola patriarcale gestita dalle suore di Besançon che era stata quasi rasa al suolo durante la guerra e che ora accoglie gratuitamente molti degli studenti».

Eccellenza, i cristiani però continuano a fuggire. C’è il rischio di una Siria senza di loro?

Molte famiglie stanno lasciando il Paese, è vero. Lo posso testimoniare in prima persona dovendo firmare le domande di “uscita” che ogni giorno arrivano sopra la mia scrivania. Noi vescovi non riusciamo più a dire alla nostra gente di rimane qui. Ad andarsene sono soprattutto genitori e figli, in particolare giovani. E sulle persone comuni si abbatte anche il tragico peso delle sanzioni imposte dall’America e dall’Europa. Tuttavia non penso che la Siria rimarrà priva di noi discepoli del Risorto. Ritengo che il Signore non farà mancare la sua misericordia su questo Paese che Giovanni Paolo II aveva chiamato la «culla del cristianesimo».

Come le Chiese sono accanto a chi resta?

La comunità ecclesiale fa tutto il possibile per aiutare le famiglie. E quelle che non emigrano sono in molti casi le più povere. Ad esempio, il patriarcato le sostiene pagando l’affitto di casa, offrendo generi alimentari, donando abiti ai più giovani. Aggiungo che numerosi organismi ecclesiali, specialmente dell’Europa, e alcune nazioni non ci hanno dimenticati. Uno straordinario “grazie” va a papa Francesco sia per i suoi numerosi interventi sull’«amata Siria», sia per gli aiuti che ci ha fatto giungere attraverso la nunziatura apostolica.

Sono ancora attive frange fondamentaliste?

Rispondo con un grande e amaro sì.

E gli attacchi ai cristiani?

In alcune zone del nord-est si registrano ancora persecuzioni. Comunque in tutto il territorio prevale un clima di sfiducia fra cristiani e musulmani. Non possiamo però incolpare il governo che non riesce a compiere tutto ciò che vorrebbe.

Il Documento di Abu Dhabi invita alla fratellanza universale. Come si costruisce un rapporto “cordiale” con il mondo islamico?

Si tratta di un testo illuminato che anche la Chiesa melchita in Siria ha diffuso nelle parrocchie o che è stato oggetto di approfondimento nelle nostre scuole. Però niente di analogo è stato fatto dalla comunità musulmana. E spiace dirlo ma qualche mese fa un’influente figura del governo ha definito in televisione la Siria un Paese islamico dove i cristiani sono soltanto ospiti e arrivati come rifugiati. C’è tanto da impegnarsi per creare un clima di rispetto.

A Firenze il tema centrale sarà quello della cittadinanza che, scrive il Papa, si basa sull’«uguaglianza di diritti e doveri».

È una questione su cui ci siamo confrontati in questi mesi di preparazione. Un argomento molto sentito anche perché in un Paese arabo come la Siria il cristiano è considerato un cittadino di secondo grado: ad esempio, non potrà mai diventare presidente. Il cristiano resta un infedele, un miscredente. Perciò è impossibile parlare di uguaglianza di diritti e doveri. Ma mi permetta un appello…

Prego.

Se qualcuno vuole sostenere la nostra comunità, cammini accanto ai sei seminaristi che sono tornati ad animare il Seminario di Damasco. Li aiuti, faccia sentire che non sono soli e che l’Occidente non abbandona i cristiani del Vicino Oriente.

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