Erica Tossani, coordinatrice del Settore volontariato e giovani della Caritas Ambrosiana, è stata impegnata al Sinodo come “facilitatrice”. Un po’ oscura come qualifica. In realtà cosa ha fatto?
Come facilitatrice avevo il compito di accompagnare nel discernimento uno dei 36 tavoli, utilizzando il metodo della conversazione nello Spirito. Concretamente questo ha significato cercare di custodire uno spazio che consentisse a tutti di condividere con libertà la propria esperienza ecclesiale, portando al tavolo le traiettorie promettenti, ma anche le paure e le fatiche connesse a tale esperienza. Ai facilitatori è stato chiesto di mettersi in ascolto sia di ciò che veniva detto, sia di quanto era taciuto; ma anche di intervenire al momento opportuno, non solo per far rispettare tempi e metodo ma, ad esempio, per evitare che le voci più flebili rimanessero sotto traccia, per far emergere senza timore le divergenze, per aiutare il gruppo a riconoscere dove era già possibile immaginare passi concreti.
È stato difficile “mettere in riga” cardinali e vescovi che, per deformazione istituzionale, tendono a prendere molto spazio?
Da subito è emersa una certa fatica nel saper e nel sapersi ascoltare. Siamo tutti molto più abituati a parlare, ad affermare le nostre convinzioni, ad approfondire argomentazioni e motivazioni, piuttosto che a far spazio alla parola dell’altro e a lasciare che questa ci metta in discussione. Certo ci sono ruoli che espongono maggiormente al rischio di concepirsi come quelli che devono sempre avere una parola da dire. Ma credo sarebbe ingiusto scaricare questa difficoltà sull’una o sull’altra categoria. Ho incontrato vescovi capaci di ascolto profondo e laici irrigiditi nelle loro posizioni. La sfida di una Chiesa sinodale capace di mettersi in ascolto della parola dello Spirito che si nasconde e si rivela nelle parole dell’altro e della storia, è una sfida che interpella e coinvolge tutti.
Ha la sensazione che esistano ancora nella Chiesa forti polarizzazioni (tradizionalisti, progressisti)?
La diversità di provenienze, di contesti, di esperienze presenti all’interno dell’Assemblea è stato l’elemento più affascinante e, al contempo, sfidante di queste settimane. Le posizioni diverse esistono, certo. Sono emerse a volte con forza, altre in modo meno esplicito. Sarebbe mistificante non ammettere che queste differenze spesso complicano e rendono faticoso il cammino. Ma credo che la portata “sovversiva” - per usare un’espressione di madre Angelini – non solo dell’Assemblea di ottobre, ma di tutto il cammino che l’ha preceduta, stia esattamente in questo: si è intuito ed iniziato a gustare il fatto che è possibile e bello camminare insieme nella differenza. La Chiesa sinodale non è la Chiesa dell’uniformità, ma una Chiesa che vuole riconoscere e vivere nella differenza, custodendola e coltivandola come ricchezza. E che proprio per questo può diventare parola profetica per e dentro a questo nostro tempo, in cui pare che l’esistenza di posizioni diverse sia necessariamente destinata ad alimentare polarizzazioni e divisioni, a generare guerre, ad esaurirsi nel prevalere dell’una sull’altra.
Cosa le ha lasciato, a livello di arricchimento personale, questo grande esercizio di coordinamento e di ascolto?
Innanzitutto, l’enorme ricchezza che deriva dall’aver vissuto con persone provenienti da tutto il mondo. Veramente un respiro universale, che allarga gli orizzonti e ridimensiona le lenti attraverso cui siamo soliti guardare gli altri, la storia, la vita. Poi l’importanza dell’ascolto, come ingrediente fondamentale non solo di una chiesa sinodale, ma del vivere cristiano, e come condizione di possibilità per camminare insieme nella differenza. Lavorando in Caritas non posso non portare a casa anche un rinnovato invito ad operare per far sì che, in questo cammino, chi solitamente resta ai margini non solo venga aiutato a non rimanere indietro, ma sempre più trovi spazi per abitare a pieno titolo la comunità. Infine, il dono forse più grande: i volti e le relazioni, intessute in uno stile sorprendentemente semplice e familiare, con tante persone appassionate del Vangelo e dell’umanità. In alcuni momenti mi sono sentita piccolissima tra giganti, non perché in mezzo a nomi illustri, ma perché a fianco di persone che mi hanno fatto ardere il cuore.
È convinta che questa prima assemblea del Sinodo sulla “Chiesa sinodale” sia stato davvero un momento di svolta oppure abbiamo vissuto solo a una fase interlocutoria?
La mia sensazione è che in questa tappa, che di certo non esaurisce il cammino, sia stato piantato un seme. Piccolo, ma carico di vita. Perché condotto dallo Spirito di Vita e perché carico dell’“ascolto della vita” di cui il Sinodo sin dall’inizio si è nutrito. Fin dai primi giorni, la percezione profonda è stata quella di abitare un tempo favorevole in cui - citando Madeleine Delbrêl - proprio dentro alle sfide di questo nostro mondo il Signore sta invitando la sua Chiesa a “danzare con Lui”. Quella Chiesa che anche grazie a questo mese romano – inizialmente un po’ temuto guardo con speranza e con rinnovata tenerezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Erica Tossani, coordinatrice del Settore volontariato e giovani della Caritas Ambrosiana, che è stata anche facilitatrice a uno dei tavoli del Sinodo