Monsignor Luigi Di Liegro è morto il 12 ottobre 1997 a 69 anni
Tanti anni fa, con la commozione che l’istintiva ritrosia sua gli consentiva, da figlio di un italiano immigrato irregolarmente negli Usa per sfamare la famiglia, recidivo e respinto più volte, don Luigi Di Liegro mi raccontò: «La prima volta che sono andato in America, una sera, ho camminato per ore sulle banchine del porto di New York... Era il cammino che tante volte lui, mio padre, emigrante per mantenere la famiglia aveva fatto da solo, quando arrivava e quando lo cacciavano». Un altro ricordo. Inizio anni ’90, aveva il cuore gonfio – quasi sommerso dalle accuse e dalle critiche che gli venivano da tanti potenti e anche da parte di uomini di Chiesa – e mi raccontò che se il suo lavoro come direttore della Caritas romana continuava lo doveva personalmente a Giovanni Paolo II. Qualche tempo prima lo aveva incontrato per una cerimonia ufficiale alla Basilica di San Paolo, aveva potuto salutarlo e gli aveva detto: «Santità, ci sono tanti che non sono contenti di me».
E il Papa gli aveva risposto forte, in modo che tutti sentissero: «Non si preoccupi, don Luigi, sono quelli che non sono contenti neppure di me!». Era già pronto, mi disse, il suo trasferimento dalla Caritas a una parrocchia presso Acilia, dove già si recava il sabato e la domenica. Così era diventato noto a tutti che Giovanni Paolo II lo stimava e gli voleva bene. Quelle parole del Papa gli fecero da scudo fino alla fine... Ancora un ricordo, forse il più antico di tutti. Nel corso degli anni ’70, egli con altri preti di Roma ebbe l’idea di trovarsi, alla sera, una volta al mese, per pregare. Si cominciò, ma arrivò, il veto dei “superiori”. Qualcuno aveva paura che i preti pregassero insieme, perché dopo la preghiera, si sa, si sarebbe parlato, e chissà cosa si sarebbe detto. Parole precise: «Sì, voi pregate, e poi mangiate… Sì, ma poi… parlate pure!». Qualcuno lo ha sempre visto come un pericolo. E invece è stato un amico, un fratello maggiore, un esempio, un modello, un mite contemporaneamente durissimo, capace di tenere testa a ogni tentativo di ammorbidire la sua adesione al Vangelo, di renderlo meno fedele alla voce di Colui che gli parlava dentro, e gli mostrava il suo cammino di prete e di testimone. È stato sempre vivo, don Luigi, e ha capito presto che il suo posto era accanto agli ultimi, ai poveri veri, agli emarginati, agli zingari, ai barboni, alle donne perdute e abbandonate da tutti, ai ragazzi senza padre e senza madre.
Lì, lui, trovava il popolo, lì riconosceva Cristo vivo. Al servizio della Chiesa, sempre: mistero e popolo di Dio incarnato nei poveri e in quelli che incontrava ogni giorno. Obbediente, e capace di vivificare l’obbedienza con la collaborazione attiva che trasformava i progetti altrui e li riempiva di quello slancio, di quel calore, di quella determinazione che tutti gli riconoscevano. Era, a modo suo, un comandante e un monaco della carità, solitario e solidale, dialogante e deciso, capace di rischiare in proprio anche per non compromettere la Chiesa come tale. Il Convegno che fu detto “sui mali di Roma” gli causò tanta notorietà, certo, ma anche tanta ostilità, mondana e clericale, politica e di potenti, che gli è rimasta addosso per tutta la vita, contribuendo a quel logorio di energie, e soprattutto di cuore, che venti anniorsono se lo portò via, a riposarsi finalmente nel Cuore di Colui che aveva servito giorno dopo giorno negli “ultimi”. Ha amato la Chiesa, don Luigi, più di se stesso, servendola sul serio, mai servendosi di essa per fare una carriera che non ha fatto anche perché non l’ha voluta fare. Nei confronti del potere politico ha sempre e ovunque avuto un solo criterio: rispetto per tutti, esigenza che servissero cittadini e uomini come tali, rigore assoluto nel non farsi mai confondere con nessuno, di nessuna parte politica, di nessuna tendenza o corrente. Riconosceva i meriti reali di tutti, ma non si legava mai ad alcuno, salvo ai poveri, ai giovani, ai suoi volontari che mandavano avanti quella macchina concreta di cure e di amore che dalle piccole mosse iniziali era diventata e continua a a essere la Caritas di Roma. Correva sempre, don Luigi, salvo quell’ora del pomeriggio in cui gli amici sapevano che potevano trovarlo a pregare, a leggere, a pensare.
L’ultima volta che l’ho visto in casa sua faceva freddo, e lui aveva una coperta addosso, perché non c’era il riscaldamento: gli chiesi come mai. E la risposta fu, testuale: «Ma tu pensi che con quelli che incontro ogni giorno, e sono tanti e tante, io posso permettermi in coscienza di avere il riscaldamento?». Era visibilmente stanco, ma continuava a pensare agli altri, a quelli della mensa, a quelli delle strade, alle donne degli incroci, ai ragazzi zingari senza scuola. Però era contento della casa per malati di Aids che aveva fatto nascere, in piena clandestinità riuscita, con l’aiuto delle Suore, a Campo de’ Fiori. Mi parlava degli ammalati di Villa Glori, anche quelli di Aids, e anche dell’egoismo di coloro – ricchi e poveri – che avevano protestato perché non li volevano vicini. Era contento, preoccupato del modo con cui avrebbe potuto far capire all’opinione pubblica non solo l’utilità, ma la necessità che si moltiplicassero iniziative anche minime, ma efficaci, per abbattere i pregiudizi, per trovare spazio sulla stampa sempre in cerca di scoop e mai di notizie positive. Guardava avanti, al domani. Fino all’ultimo istante. Ora riposa lassù, e – conoscendolo ne sono sicuro – da lassù continua a pregare per noi: come Teresa di Lisieux «passa il suo Cielo a fare del bene sulla terra». Prete, amico, difensore degli ultimi, ultimo egli stesso. Difficile non pensare che la sua vita sarebbe piaciuta tanto a qualcuno che, oggi, è Papa e ci raccomanda di essere “in uscita”, al fianco e alla testa dei fratelli in cammino: da lassù anche don Luigi è contento.