mercoledì 20 aprile 2022
Il biblista e teologo padre Faggioni: come credenti e figli di Dio possono partecipare alla vita della Chiesa. E, se genitori, continuare a educare i figli, perseguendo il loro autentico bene
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. - Archivio Ansa

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Anche nel pianeta transgender ci sono tante persone che cercano sinceramente Dio e che, proprio per la loro condizione di disorientamento, talvolta di sofferenza, a causa della faticosa ricerca di una nuova identità di genere, approdano in molti casi a una spiritualità più consapevole perché alimentata da tante, profonde domande di senso. Purtroppo la Chiesa fa spesso fatica ad accogliere queste persone, perché rimane in bilico tra il rispetto e la dignità che dev’essere riconosciuta ad ogni donna e ad ogni uomo, al di là del suo orientamento sessuale, e la fatica di abbracciare, insieme alla persona, la sua storia, la sua esperienza, le sue domande di infinito. È quanto emerge dal libro di Luciano Moia, Figli di un dio minore. Le persone transgender e la loro dignità (San Paolo; pagine 155; euro 16) con la prefazione di don Andrea Conocchia, parroco di Torvaianica. Nel libro si dà spazio alle storie di queste persone e si indaga sulla condizione transgender alla luce della scienza, del diritto, della teologia, ascoltando esperti nei diversi ambiti, come padre Maurizio Faggioni (della cui intervista pubblichiamo qui sotto ampi stralci), padre Pino Piva, don Salvatore Cipressa, il ginecologo Maurizio Bini.

«Una persona transgender è prima di tutto un figlio di Dio, una persona con la sua dignità umana e, se credente, un fedele chiamato a sedersi alla mensa del Signore e a partecipare attivamente alla vita della Chiesa». Lo spiega padre Maurizio Pietro Faggioni, docente ordinario di bioetica presso l’Accademia Alfonsiana di Roma, medico, endocrinologo, oltre che teologo morale. È anche consultore della Congregazione della dottrina della fede e della Congregazione delle cause dei santi, membro della Pontificia Accademia per la vita.

Se una persona non può essere ritenuta “colpevole” della discrepanza fra la propria identità di genere e il sesso fisico, né dei problemi esistenziali legati a una identità di genere irrisolta, è giusto che cerchi aiuto nella psicoterapia?
Siamo lontani dal comprendere la genesi precisa della identità di genere, ma possiamo dire che è il risultato del convergere di predisposizioni di natura genetica e di imprinting ormonali sul cervello prenatale con un potente influsso derivante da esperienze vissute nei primissimi anni di vita. Quando si ha una discrepanza fra sesso corporeo e identità, la persona avverte un disagio esistenziale più o meno intenso che viene indicato come disforia di genere. Questo disagio può iniziare nell’infanzia o nell’adolescenza o anche più tardi e chiede un aiuto competente. Una esplorazione psicologica è fondamentale e, in molti casi, una buona psicoterapia, soprattutto nei più giovani, può aiutare la persona a superare la disforia o a renderla meglio gestibile a livello personale e sociale.


Nel nuovo libro di Luciano Moia uno sguardo
senza imbarazzi sulla condizione difficile
di persone spesso emarginate dalle comunità
Un’inchiesta tra accoglienza pastorale,
società, scienza e diritto

E se la psicoterapia non si rivelasse efficace, è lecito tentare altre strade arrivando fino alla riassegnazione medico-chirurgica del sesso?
La domanda è molto ampia. Riguardo alla accettabilità morale degli interventi che mirano alla modifica medico-chirurgica dell’aspetto fisico della persona, il dibattito tra i moralisti cattolici non ha trovato ancora una posizione condivisa. Con il rischio di essere schematico su una questione che, in effetti, non permette di tracciare confini netti di liceità e illiceità, accennerò le due opinioni correnti. Alcuni moralisti sono contrari perché ritengono che non si può ridurre l’identità sessuale di una persona alla sola autocoscienza mettendo fra parentesi gli elementi corporei della sessualità. Sullo sfondo sta la polemica sollevata dalla teoria del gender che enfatizza la rilevanza dell’autocoscienza e della libera decisione nel definire l’identità sessuale di una persona. Essi dicono che questi interventi devastano un corpo senza risolvere alla radice la discrepanza fra corpo e psiche. Altri ritengono che la sofferenza derivante dalla discrepanza corpo-psiche può diventare così insostenibile da precipitare la persona nell’angoscia e nella disperazione. Se ci si può attendere ragionevolmente che l’intervento medico e chirurgico di modifica dell’aspetto fisico possa ricomporre il conflitto doloroso fra corpo sessuato e identità di genere, allora l’intervento può essere accettato così come si accetta una terapia palliativa che, senza agire sulle cause di un sintomo molto doloroso, mira prima di tutto a migliorare la qualità di vita di una persona.

Ci sono documenti ufficiali della Chiesa sul tema della transessualità?
La Chiesa ha ben presente la questione della disforia di genere, ma gli interventi sono molto discreti. Il cardinal Ratzinger nel 1991 – era ancora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – scrisse negativamente ai vescovi tedeschi riguardo all’ammissione al matrimonio di persone transessuali operate. Un documento ufficiale della stessa Congregazione del 2000 che, data la delicatezza della materia, doveva restare riservato, è stato in parte pubblicato su internet da fonti giornalistiche. In Italia c’è una Nota della Cei del 2003, anch’essa negativa, sull’ammissione alle nozze dopo gli interventi della cosiddetta correzione del sesso. Visto che in Italia un giudice può disporre la riattribuzione del sesso denunciato alla nascita, si dispone nella Nota che il certificato di battesimo non si corregge, ma si annota che il sesso registrato al battesimo ora è diverso dal sesso all’anagrafe civile.




La riassegnazione medico-chirurgica?
«Accettabile come terapia palliativa,
non rimuove le cause,
ma può migliorare
la qualità della vita»

Tra le varie esperienze raccontate in questo libro ce ne sono alcune riferite alle scelte di uomini che, dopo il matrimonio concordatario, hanno scelto di porre fine alle loro terribili sofferenze identitarie attraverso la riassegnazione chirurgica del sesso. Le mogli hanno accettato questa scelta e continuano a vivere con un marito diventato “donna”. Si tratta di coppie credenti che vivono una serena vita di fede. In questi casi qual è la valutazione etica?
In generale un uomo e una donna restano sposati anche se uno dei due subisce gravi traumi o mutilazioni o manifestasse patologie fisiche o psichiche. Perciò i vincoli di affetto, la condivisione della vita, la comunione spirituale nella fede possono certamente continuare anche dopo l’emergere della disforia e dopo gli interventi di adeguamento del sesso corporeo alla identità di genere. Diversa la situazione se la coppia sviluppasse un dubbio sul proprio matrimonio e lo sottoponesse al giudizio della Chiesa. Sappiamo che le origini della disforia sono lontane e radicate nella persona. Una volta che la disforia esplodesse in tutta la sua gravità tanto da condurre un marito, per esempio, a chiedere interventi di modifica del sesso corporeo, sarebbe possibile dubitare che quel matrimonio fosse stato, al di là dei riti e delle formalità, un vero matrimonio, cioè l’unione di un uomo e di una donna. Essere uomo ed essere donna va molto oltre l’avere un corpo fatto in un modo o in un altro e va oltre persino alla possibilità di una intimità sessuale.

Queste coppie a volte hanno figli, nati prima della riassegnazione chirurgica. L’impegno educativo di queste coppie “a geometria variata”, non è venuto meno. Neppure l’educazione alla fede. Perché allora esprimere considerazioni negative sul loro impegno, visto che per loro la transessualità è stata una scelta resa quasi obbligatoria da una condizione psichica patologica?
Dire che, a motivo della loro situazione personale, se non si può parlare di matrimonio, non significa esprimere considerazioni negative sull’impegno di queste coppie. Riguardo ai figli molto dipende dal riflesso su di loro di una storia senza dubbio insolita, dalle loro reazioni e da come hanno accolto ed elaborato, magari con accompagnamento competente, la modifica dei ruoli e delle dinamiche genitoriali. Una coppia “a geometria variata” – per usare la sua espressione – può continuare a svolgere i suoi doveri educativi verso i figli, purché questo sia il bene autentico dei figli e non l’imposizione di una scelta dei loro genitori.

Se quel padre diventato “donna” fosse chiamato a fare il padrino di Battesimo dei suoi nipotini potrebbe accettare?
In linea di principio se un credente o una credente hanno una bella vita cristiana possono fare il padrino o la madrina. Vista, però, la singolarità della situazione, ci si potrebbe chiedere se non sarebbe meglio scegliere un altro padrino o un’altra madrina per evitare incomprensioni o turbamento nella comunità cristiana. Se mi capitasse una richiesta simile, io come prete chiederei consiglio al vescovo.

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