venerdì 31 gennaio 2025
L’arcivescovo di Chieti-Vasto interviene sul tema lanciato da padre Spadaro sulle pagine di “Avvenire”
Jean-François Millet, «L’Angelus» (1858-59) olio su tela, Museo d’Orsay, Parigi

Jean-François Millet, «L’Angelus» (1858-59) olio su tela, Museo d’Orsay, Parigi - .

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Dalle pagine di questo giornale domenica 19 gennaio padre Antonio Spadaro, il gesuita che per circa dodici anni ha diretto in maniera brillante e incisiva La Civiltà Cattolica, ha lanciato una proposta che mi sembra meritevole di particolare attenzione: quella di una teologia “rapida”, capace di parlare significativamente agli abitatori del tempo nella stagione di cambiamenti vorticosi in cui ci troviamo. La tesi di fondo è che occorre «comprendere la posizione in corsa per disegnare le rotte», accettando di uscire dai porti sicuri per imparare a vivere tra le onde. Alla base di questo programma c’è una tesi così espressa: «I cambiamenti che sperimentiamo non sono “veloci”. Sono “rapidi”. La Chiesa non ha mai fatto molta attenzione alla velocità dei fenomeni. Ha invece posto l’accento sulla loro “rapidità”».

Nella radice dell’aggettivo “rapido” si trova l’idea del “rapire”, cioè dell’afferrare, del trascinar via: la velocità è un valore misurabile, che segna il progresso in termini temporali; la rapidità, invece, non è ciò che corre, ma ciò che rapisce, trascina, travolge, con effetti di attrazione e perfino di seduzione, coinvolgendo atteggiamenti, stili di vita, modi d’intendere la realtà, la politica, il costume.

«L’invenzione della luce elettrica ha “rapito” il ritmo delle nostre giornate; i social network la nostra capacità di relazione; l’intelligenza artificiale il nostro modo di pensare». Una situazione analoga – osserva Spadaro – è quella di Gesù e dei discepoli sul mare in tempesta: «Il caos non turba Gesù… sempre padrone della situazione, anche quando “dorme”. Ed è così che interviene come liberatore… Nelle onde leggiamo le trasformazioni culturali e sociali che oggi si sono acuite, ma anche le nostre paure. La caratteristica del “cambio d’epoca” è che le cose non sembrano essere più al loro posto... Pare probabile che quanto ci pareva normale della famiglia, della Chiesa, della società e del mondo non tornerà più come prima». Ciò che si profila come necessario e urgente è, allora, avere «il coraggio di vincere le paure, attraversare il mare e compiere la traversata insieme all’umanità di questo nostro tempo». Sì, perché «la Chiesa ha perso la regìa della produzione culturale, che aveva le sue basi e le sue finalità in una visione teologica della vita... In questa situazione, la sfida più grande consiste nel dialogare empaticamente, anche alla ricerca di nuovi linguaggi per dire la fede».

Occorre, insomma, «lanciarci nel futuro, fiduciosi nel fatto che il Signore non è solamente un “faro” che se ne sta fermo ed emette luce a distanza, ma è proprio sulla nostra barca agitata dalle onde, salvandoci col riposo della sua consolazione». La conclusione appare netta, stringente: «La teologia deve farsi carico di pensare le onde, oltre che le rive di approdo, di gettarsi nelle rapide e di pensare rapidamente, in corsa, senza lamentarsi di non avere il tempo per ragionare, pianificare… La memoria ecclesiale deve unirsi all’istinto per tramutarlo in “intuito”, che è la capacità di avvertire, discernere e valutare con rapidità una situazione nel suo divenire».

Come non consentire con una simile analisi, se appena appena abbiamo la percezione dei cambiamenti in atto, delle insicurezze emergenti, delle paure sottese, anche nel cuore di chi crede, e non di meno del bisogno di partecipazione, comunione e missione, vissute in modo “sinodale”, all’interno della grande barca della Chiesa sul mare in tempesta della storia? Il consenso si unisce, però, a quella che si affaccia come una necessaria integrazione: se occorre “rapidità”, c’è bisogno al tempo stesso di “lentezza”. Lo fa ben comprendere Italo Calvino, che nella seconda delle sue Lezioni americane, scritte per una serie di conferenze che doveva tenere negli Stati Uniti e che non furono mai pronunciate a causa della morte del geniale Autore (Garzanti, Milano 1988), riflettendo sulla “rapidità” afferma: «Ogni valore che scelgo come tema delle mie conferenze… non pretende d’escludere il valore contrario: come nel mio elogio della leggerezza era implicito il mio rispetto per il peso, così questa apologia della rapidità non pretende di negare i piaceri dell’indugio. La letteratura ha elaborato varie tecniche per ritardare la corsa del tempo… Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta d’arrivare prima a un traguardo stabilito». La rapidità, insomma, non è la velocità, ha un significato più complesso: ciò che conta non è abbreviare, tagliare o riassumere, ma capire e assecondare il senso profondo e il valore di ciò di cui si parla o che si esprime nel gesto e nell’azione. La rapidità è distribuzione differenziata, che coniuga agilità, mobilità, ponderazione e misura. Essa non si oppone all’elogio della lentezza, ne è perfino complice, quando questa diventa necessaria affinché la dimensione temporale di un pensiero, di un’azione o di un processo sia vissuta e trasmessa ad altri nel modo giusto.

Il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco. Rallentare, divagare, fermarsi – correre, quando se ne ha bisogno – sono aspetti della vita vissuta consapevolmente e in pienezza, da parte di tutti, nessuno escluso. Lo esprimeva così Leonardo da Vinci: «A torto si lamentano gli uomini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, fa sì che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente…». Fra il già e il non ancora della vita e della storia un pensiero della fede “rapido” aiuta a situare e misurare le nostre scelte al cospetto dell’Eternità...

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