Dopo aver salito le più alte montagne della Terra, ha capito che, se voleva andare ancora più su, doveva cominciare a scavare nel profondo di sé. Laggiù, sotto una cenere di anni, ha trovato ancora una piccola fiammella accesa. Ha cominciato a liberarla, le ha fatto spazio, e si è lasciato guidare da quella luce che, via via, si è fatta più luminosa. Così, ha rimesso lo zaino in spalla e ha ripreso il cammino.
«In fondo non ho mai smesso di andare in montagna, ho solo preso un sentiero un po’ più lungo», sorride Oreste Forno, 60 anni, valtellinese di nascita e brianzolo d’adozione (vive a Erba, in provincia di Como). Forte alpinista con all’attivo diverse ascensioni oltre quota ottomila nell’Himalaya, più volte capospedizione, oggi è guardiano della diga di Moledana – a 900 metri di quota in Valle dei Ratti – di proprietà dell’Edison. Per raggiungerla occorre inerpicarsi da Verceia (Sondrio), attraverso un bosco in cui capita anche di incontrare scoiattoli e caprioli e poi percorrere una piccola strada ferrata a bordo di un trenino che si infila nel cuore della diga.
Proprio questo mestiere, che assomiglia molto a un eremitaggio, con le giornate divise tra il monitoraggio della diga, la trasmissione dei dati e la manutenzione al bacino artificiale, il tutto in un contesto naturale unico, ha favorito questo 'pellegrinaggio interiore' cominciato quando ha avvertito la necessità di cercare qualcosa (o meglio, Qualcuno), «più in alto delle cime».
Dopo averci meditato sopra quasi dieci anni, Oreste ha deciso di raccogliere questa esperienza nel libro L’altra montagna (vedi box), che considera una sorta di «guida» per chi, come lui, è ancora in ricerca. Così, dopo tante montagne e altrettante avventure, l’alpinista è stato «rapito dalla bellezza » e ha capito che doveva mettersi sulle tracce dell’Autore degli spettacoli naturali che contemplava. Come in ogni ascensione che si rispetti, aveva bisogno di una guida. «Sono stato fortunato, ho trovato tante persone, religiosi e laici, che mi hanno dato una mano e me la danno ancora. Li chiamo i miei paletti, perché mi aiutano a non uscire di strada».
Oreste ancora si stupisce e commuove raccontando di questo «grande dono» che gli è capitato, che lo ha spinto ad «affidarsi totalmente » e a incamminarsi su sentieri abbandonati da tanto tempo. Per lui una sorta di rinascita umana e spirituale.
«In casa ho ricevuto un’educazione cristiana – racconta – ma, giunto alle soglie della maturità, ho smesso di frequentare la Chiesa e di andare a Messa. In poche parole, ho accantonato la fede trasmessami dalla mamma. Per tanti anni mi sono dedicato esclusivamente a me stesso, alla passione per l’alpinismo d’alta quota, a soddisfare il mio desiderio di conquista sulle montagne più alte della Terra: era diventato il centro della mia vita».
Una passione non certo avara di soddisfazioni per Oreste, in breve entrato nella ristretta cerchia degli scalatori di 8000 più forti, che però non riusciva ad appagare completamente il suo desiderio d’assoluto.
«Il continuo incontro con la bellezza mi stava cambiando – riprende a raccontare – e così mi sono messo in ascolto».
La svolta avviene «in una bella mattina estiva del 2002», in Valchiavenna, a nord del Lago di Como, attraverso l’incontro con un gruppo di suore che elevavano lodi a Dio davanti allo spettacolo delle cascate dell’Acqua Fraggia. Per Oreste è una specie di folgorazione: ecco quello che cercava.
«Per me è stata una rivelazione, una chiamata. Come loro, anch’io avrei voluto cantare per l’Autore della bellezza strabiliante che mi si presentava davanti. Solo che non ricordavo le parole, non ne ero più capace. Così mi sono messo alla ricerca».
Oreste decide di seguire il percorso più naturale: avrebbe cercato le risposte sulle montagne. Ma non su quelle più alte o più difficili da scalare. No, avrebbe cercato sulle «montagne più care», quelle che lo accompagnavano dalla giovinezza o gli ricordavano persone amate.
La scelta cade su sette vette della Lombardia, sulle quali decide che avrebbe trascorso anche la notte. Le ascensioni si svolgono tra l’estate del 2003 e il 2005 e non sempre sono accompagnate dal bel tempo.
Durante il suo “pellegrinaggio verticale”, Oreste incontra anche la tempesta, viene colpito da un fulmine durante un violento temporale e deve combattere il freddo e l’arsura che gli fa ardere la gola. Sul suo cammino, però, trova delle situazioni e delle persone che lo aiutano – ad esempio donandogli una bottiglia d’acqua quando ormai disperava di trovarne – e questi incontri non appaiono ai suoi occhi semplici coincidenze, ma «segnali della Provvidenza ». «Sentivo che Qualcuno mi chiamava lassù facendomi incontrare delle guide, degli aiuti lungo il sentiero». A volte si è trattato anche del vecchio padre scomparso da qualche anno o degli amici morti in montagna. Su quelle cime, durante quelle notti, Oreste ha ripreso a pregare, ha ritrovato, tra i ricordi di bambino, le parole insegnategli dalla mamma. E tra dolci ricordi e tante lacrime, lasciate scorrere in abbondanza, senza vergogna, ha fatto sempre più spazio a quella fiammella in fondo al cuore.
Per lui comincia a cambiare anche il modo di intendere il suo ruolo di marito e padre. Nelle lunghe ore di veglia, aspettando le prime luci dell’alba, Oreste si rende conto che, le tante avventure in giro per il mondo l’avevano allontanato dalla moglie Ombretta e dai due figli, Franco e Matteo, ormai adolescenti. Decide che non doveva più essere così, perché la famiglia «è un dono per la vita da custodire e far crescere »: no, non l’avrebbe più trascurata.
Un dono, però, non può essere tenuto per sé, ma va condiviso. Soprattutto con chi «ha ricevuto meno dalla vita». Ecco, allora, l’idea delle Cime di Pace. In breve, Oreste promuove un movimento di alpinisti che, sotto l’egida del Club alpino italiano, comincia a portare sulle montagne questo messaggio di fratellanza universale. «È per me una grande soddisfazione – annota nel libro – e gioisco al pensiero che anche questo è frutto delle mie notti sulle cime. Di quelle cime che continuano a chiamarmi».