Cinque minuti.
Sono pochi, cinque minuti, ma bastano per lasciare il segno. I 100-150mila che
guardavano la finestra di Benedetto XVI non li dimenticheranno, quei cinque
minuti all’Angelus, l’ultimo del suo pontificato. Ricordando il Vangelo di ieri
dedicato alla Trasfigurazione – un Vangelo che sembrava scelto per lui -, ha
detto che Dio chiama anche lui a “salire sul monte, a dedicarsi ancora di più
alla preghiera e alla meditazione, ma questo non significa abbandonare la
Chiesa, anzi. Se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a
servirlo con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo
fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”. Un’altra
lezione di realismo e di fede, un altro omaggio all’Amato e alla
sua Amata, la Chiesa. Un’altra conferma della straordinaria capacità del
“professor Ratzinger” di spiegare ai semplici le cose ultime. Ultime perché
arrivano al fondo dell’esistenza, dove non servono tante parole, dove la cosa
più preziosa è la testimonianza. E a tutta quella gente arrivata da chissà dove
per dirgli il suo affetto, a quelle facce col naso all’insù, ai molti visi
rigati da lacrime di commozione, Benedetto ha testimoniato che l’affetto più
grande è spendere la vita per l’Amata, servire la Chiesa come la cosa più cara
che si ha. Non tenere la vita per sé, ma offrirla sapendo che solo così la si
può veramente conquistare. Ci ha detto che la Chiesa ha bisogno di testimoni,
oggi più che mai, e che il modo migliore per ringraziarlo è metterci sulla
strada che lui sta percorrendo. Salire sul monte, senza voltarsi indietro.
Dedicandosi ancora di più alla preghiera e alla meditazione, sapendo che questo
non significa abbandonare l’Amata, ma amarla con tutte le forze che sono rimaste
a disposizione.