venerdì 18 ottobre 2024
L'arcivescovo di Torino e vescovo di Susa sente la prossima creazione a cardinale, come l'invito a «donarmi ancora di più a Dio e alla Chiesa». La conferma di un cammino di rinnovamento
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La prima reazione è stata di grande gratitudine. «Per certi aspetti mi sono rivisto piccolino e mi sono detto che davvero il Signore mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi con tanta tenerezza». Monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa è tra i ventuno nuovi cardinali, di cui quattro italiani, che saranno creati dal Papa nel Concistoro del prossimo 7 dicembre. Una scelta non scontata, visto che Francesco ha superato l’automatismo in virtù del quale una grande sede arcivescovile doveva essere guidata pastoralmente da un porporato. Così la sorpresa di Repole, al sentire il suo nome pronunciato dal Papa all’Angelus del 6 ottobre è stata particolarmente grande. «Non me l’aspettavo assolutamente – spiega –. Come ho scritto ero a tavola con i miei familiari, nella casa dei miei genitori, è stato un modo bello di ricevere la notizia. Ho ripensato al cammino della mia vita e ai doni che ho ricevuto fin da quando ero ragazzo, fino a questo ultimo dono di papa Francesco».

Forse qualcosa il giorno prima avrebbe potuto capirlo. Il Papa le si era rivolto addirittura in dialetto.

Ero al Sinodo, cui sto partecipando, e sono andato a salutare il Papa. Quando mi ha visto il Santo Padre mi ha detto cerea (forma di saluto piemontese più formale del semplice ciao ndr) al che io gli ho risposto a mia volta cerea. Poi lui ha aggiunto: «in questi giorni stavo pensando a te, però ne parliamo lunedì, comunque è una cosa bella». Ex post ho capito cosa volesse dire.

Commentando a caldo la notizia, lei ha detto che la scelta del Papa dice la sua grande attenzione alle Chiese di Torino e di Susa.

Sì, indubbiamente, e credo che in questo contesto possa essere letta davvero come una conferma del cammino intrapreso, che è un po' di rinnovamento ecclesiale. La decisione del Pontefice ci sprona, diciamo così, ad essere ancora più convinti, più evangelici in ciò che stiamo facendo.

Un cammino di rinnovamento anche difficile, perché cambiare non è mai agevole. Bisogna vincere delle resistenze.

Soprattutto perché si tratta anche di immaginare un modo di esistere della Chiesa che non abbiamo sotto gli occhi, differente da quello che abbiamo ereditato. Però malgrado la fatica non si può non vedere il grande apprezzamento espresso da molti e anche, direi, la speranza con cui davvero tantissimi cristiani, preti, diaconi, religiosi guardano alla possibilità di essere comunità in un modo diverso.

La sua ultima Lettera pastorale riprende nel titolo un’espressione di Gesù durante l’episodio della moltiplicazione dei pani: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). Al centro c’è il tema dell’impegno sociale. Mi sembra che lei abbia voluto andare alla radice della carità, essenziale nella vita della Chiesa.

Sì, perché molto spesso, siccome ci sono tanti gruppi di volontariato e istituzioni specializzate come la Caritas, corriamo il rischio di pensare che la carità sia affare di qualcuno. La lettera pastorale mette in evidenza che non siamo noi la sorgente della carità, bensì Cristo e che noi ne siamo i primi beneficiari. Si accoglie questa carità nella misura in cui la si rende disponibile per tutti, a cominciare dai più fragili e bisognosi, considerando che le fragilità e le necessità sono davvero di tanti generi, da quello materiale a quello psicologico, a quello spirituale.

La carità è costitutiva della vita della Chiesa, dunque.

Deve essere un pilastro delle comunità cristiane e dei cristiani in quanto tali, ovunque vivano. La lettera è anche uno stimolo a far riprendere consapevolezza a tutti, soprattutto ai laici, che dobbiamo vivere la carità di Cristo negli ambienti della vita in cui ci troviamo.

Lei scrive anche che pur nel rispetto dei tanti gruppi laici che vi si impegnano «la carità non è una qualche forma di welfare o di generica filantropia». La Chiesa, dice spesso papa Francesco, non è una ong.

Potremmo dire che c’è una dimensione anzitutto passiva nella carità che sta nel riceverla da Cristo. E proprio perché ci sentiamo amati da Lui vogliamo portare questo amore ovunque. Per cui anche quando diamo da mangiare, quando offriamo il vestito, quando regaliamo del tempo, desideriamo esprimere che non c'è nessuno che non sia guardato con amore da Dio.

Sempre a proposito di impegno sociale, di attenzione solidale alle persone, nel Messaggio per la Festa del Lavoro dello scorso 1° maggio, lei denunciava il rischio che aziende in buona salute decidano di tagliare posti di lavoro o di abbandonare un territorio, non per ragioni di sopravvivenza ma semplicemente per moltiplicare i profitti, per accumulare più ricchezza.

Il rischio è legato alla mentalità economicista di oggi. Credo che dovremmo riprendere confidenza col fatto che il profitto debba servire a vivere meglio, concetto che ha anche una dimensione sociale, solidale. Il pericolo di una certa cultura contemporanea è di stravolgere totalmente la realtà, pensando che anche la vita degli uomini debba essere messa al servizio di un profitto che vale in sé e per sé. Mi sembra una forma di schiavizzazione dell’uomo.

Diventare cardinale cosa comporta nella vita di un vescovo, di un pastore? Cosa cambia?

Mah, lo dovrò vedere, non lo so ancora. Credo che implichi una nuova responsabilità e anche una collaborazione più stretta con il Romano Pontefice. C’è però qualcosa che sento implicante per me ed è la chiamata a vivere in maniera ancora più radicale il dono di me stesso a Dio e alla Chiesa, in particolare a quella porzione in cui sono stato mandato. Certamente non si tratta di un onore ma di uno stimolo in più a dire: sono davvero del Signore, fino in fondo.

La designazione del Papa è arrivata durante il Sinodo che è momento di confronto, di cambiamento.

Sì, ci dice che siamo immersi in una Chiesa che legge il Vangelo di sempre dentro la cultura di oggi e alle sfide che pone. Quindi è un invito a rendere disponibile nell'oggi il Vangelo che abbiamo ricevuto.

E quella del Sinodo, del lavorare insieme, che tipo di esperienza è? Quali le gioie, quali le problematiche?

In questo caso specifico a me sembra che il Sinodo sulla sinodalità ci faccia vedere che cosa significa ascoltarsi ed essere raggiunti da un modo di pensare, di vedere la realtà diverso dal tuo, nel confronto con rappresentanti di Chiese che sono immerse in culture differenti. Sentendo però che tutti questi cammini possono essere una ricchezza in ordine alla manifestazione della bellezza del Vangelo e della presenza dello Spirito.

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