sabato 2 giugno 2018
Onorare il corpo di un santo significa richiamare il modo in cui ha risposto al progetto di Dio e porsi alla sua scuola
L'ampolla contenente il sangue di Sa Giovanni Paolo II

L'ampolla contenente il sangue di Sa Giovanni Paolo II

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Nei giorni in cui le reliquie di Giovanni XXIII sono tornate (fino al 10 giugno) nella sua casa di Sotto il Monte, a Bergamo, ecco una riflessione sulla venerazione cristiana delle reliquie.

Ci si chiede quale può essere la ragione teologico-pastorale del peregrinare ai luoghi dove i santi hanno svolto la loro missione o raccogliere e venerare il loro corpo. Tra le varie ragioni teologiche ve ne sono alcune che hanno le loro radici nella cristologia di prospettiva metastorica ed escatologica. Noi partiamo da questa.

Il Verbo divino per espletare il piano salvifico del Padre prende umana carne, e la persona del Verbo ha in sé, realiter , la natura umana e acquisisce anche un’anima umana, come sottolinea il Concilio di Calcedonia. La fisicità del Verbo, vero figlio unigenito di Dio e vero figlio di Maria, vive la sua missione in quella corporeità e umanità riconosciuta e individuata come la personalità del rabbi galileo, che ha toccato e sanato i malati, ha dato speranza ai disereda- ti e ai peccatori, è entrato nella casa di Zaccheo ( Lc 19,1-10) e di Marta e Maria ( Lc 10,38-42) e ha, con i suoi, frequentato i momenti di gioia, come a Cana di Galilea ( Gv 2,1-11), e di sofferenza, come l’incontro con il figlio defunto della vedova di Naim ( Lc 7,11-17) e la figlia di Giairo ( Mc 5,2124.35-43). L’umanità di Gesù Cristo fu determinante nel piano divino in tutta la sofferenza e umiliazione della Passione sino alla tragedia della croce. Sul Calvario, dice san Tommaso, « latebat sola deitas ».

Il Concilio di Calcedonia, esaminata la rivelazione e la tradizione, ci garantisce che Cristo fu vero uomo in anima e corpo. Ed è proprio per il mistero dell’unione ipostatica, cioè delle due nature nell’unica persona del Verbo, che ha potuto realizzarsi la redenzione dell’umanità impoverita dalla colpa adamitica. Il corpo esanime del Crocifisso è visitato dopo la parasceve e la Pasqua ebraica dalle donne ( Mc 16,1-8) per onorarlo con i riti della tradizione. Ma il sepolcro è vuoto e il corpo risorto diventa presenza e speranza per gli Apostoli che saranno testimoni del Risorto. I cristiani sin dei primi secoli onoreranno i corpi dei martiri in virtù proprio del fatto che con il Battesimo e l’intera economia sacramentale, il corpo del cristiano ha cooperato al progetto di grazia dell’itineranza cristiana e quindi, oltre ad essere il tempio della Trinità, è stato lo strumento materiale per una realizzazione della teofania individuale, cioè di “quel cristiano” nella sua realtà storica.

L’onorare dunque il corpo sepolto di un santo significa richiamare il modo come questi ha risposto al progetto di Dio e porsi alla sua scuola, per rendere la propria vita illuminata dallo stile con cui quel santo ha vissuto. Anche i luoghi dove egli è stato e ha onorato Dio divengono eloquenza di conversione e di grazia.

L’accoglienza o il pellegrinaggio presso i corpi dei santi o i luoghi della loro vita o della loro missione vanno letti proprio in questa luce cristologica, in prospettiva di una vita da realizzare “nascosta” con Cristo in Dio, come fu la vita di questi fratelli e sorelle che in modo egregio hanno testimoniato la forza e la tenerezza dell’essere di Cristo, con Cristo e per Cristo nella strada della storia. Si tratta allora di “toccare con mano”, attraverso la presenza della carne mortale, quella dinamica dello Spirito che ha saputo, dalla fragilità della carne, rendere efficacemente presente quella essenzialità del vivere il Vangelo, in cui i contenuti della fede nelle scelte, grazie anche alla corporeità di quel credente, hanno qualificato l’essenzialità dell’essere persona umana, irrorata dalla dimensione della vita divina che ha segnato anima, tempo, spazio e luogo.

Potremmo concordare con Karl Rahner quando parla di una teologia esistenziale-soprannaturale. Nell’accostarci al corpo e ai luoghi dei santi infatti noi facciamo esperienza con l’esistenziale “consumato” da quel cristiano, che è stata la sua determinazione esistenziale – come direbbe Heidegger – autentica e piena della persona di fronte al rivelarsi e al donarsi del Signore. Questa esistenzialità può essere realmente definita soprannaturale, in quanto coincide con la donazione attiva da parte di Dio e della donazione passiva da parte dell’uomo, che ha accolto la vita di grazia. In questa dinamica di donazione passiva, l’uomo, oltre a segnare il tempo e lo spazio per sé del vivere secondo Dio, lascia una scia di testimonianza, perché dalla sua scelta altri possano beneficare e donare alla storia, come richiama Metz, le vestigia di una teologia esemplare, che orienta e determina la santità di un luogo.

Il recarsi e l’accogliere le spoglie mortali di colui che del progetto divino ha segnato il suo vivere, è concreta opportunità sia di dare gloria a Dio, per averci donato in questo fratello/ sorella l’epifania della sua misericordia, che di realizzare una prospettiva per raccogliere il testimone e continuare nella storia la “stigmata” che porterà a “cieli nuovi e terre nuove” in quella escatologia parusiaca dell’evento glorioso di Cristo, nel suo “giorno definitivo” che è luce di verità.

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