C’è un canto friulano, melodioso e dolcissimo, una preghiera universale che in questi giorni potrebbe raccogliere tutto il dolore dell’umanità davanti alle ferite delle guerre. Il testo è semplice, quanto intenso: una donna si rivolge alla «bella stella» - immagine che nella terra tra Tagliamento e Isonzo viene associata a Maria - e a «tutti i santi del Paradiso», perché «il Signore fermi presto la guerra e il mio bene, il mio amore, torni presto al paese».
Amo l’italiano, la lingua nella quale ho studiato e che mi ha dato un lavoro, anche se lontano da casa, ma in questo periodo mi sono trovato molte volte con il pensiero a rievocare l’idioma della mia famiglia. Ecco perché è tornato alla mente in particolare «Ai preât», un canto che porta dentro di sé tutta la visione del mondo dei friulani, con la loro cultura legata profondamente alla terra, capace di cogliere la presenza dell’infinito nelle piccole cose, anzi portata proprio a prediligere l’umiltà della vita quotidiana, gli strumenti semplici del lavoro fatto con le proprie mani e i ritmi dettati dalla natura. Una cultura che crede nella fedeltà e nel rispetto, soprattutto tra le mura domestiche, nell’obbligo di aiutare chi non ce la fa, nella necessità di salvaguardare gli animali come preziosi compagni di strada e di vita.
La pianura friulana vista al tramonto da Fagagna (Udine) - -
In questa lingua è facile respirare la bellezza della fede cristiana, come radice feconda che dà forma all’esistenza, anche grazie ai racconti degli anziani, che, in friulano, narravano le vicende dell’Antico Testamento, soprattutto la storia di Giuseppe o quelle di altri patriarchi, come se riguardassero dei personaggi vissuti in paese, o comunque in qualche angolo del Friuli. E anche quando le storie avevano per protagonisti dei semplici paesani, c’era sempre un tratto religioso ad accomunarli. Nei canti friulani, poi, spesso intrisi di una sorta di nostalgia per l’infinito, è espressa tutta la carnalità dell’umanità, alla continua ricerca di una piccola gratificazione, ma sempre e comunque accettata come dono di Dio, anche quelle più elementari e basilari.
Una cultura, inoltre, che nelle difficoltà sa scherzare e vivere in allegria, in semplicità. Ecco perché i friulani si sono sentiti toccati dentro quando hanno saputo che il Messale nella loro lingua non aveva passato l’approvazione dell’Assemblea Cei, anche se per un cavillo tecnico, come spiega l’arcivescovo di Udine, Andrea Bruno Mazzocato, il quale assicura anche che il cammino della traduzione del testo liturgico non si ferma qui. Vista da fuori, la faccenda potrebbe sembrare solo una questione di localismi frustrati, ma in realtà è esattamente l’opposto: pregare e celebrare in friulano per molte comunità significa sentirsi parte di una collettività universale, proprio quell’universalità che la cultura e la lingua friulana sanno leggere nelle piccole cose. Chi vive in quel lembo di terra stretto tra le Alpi Carniche e il mare Adriatico, tra il Tagliamento e il confine che un tempo segnava la Cortina di ferro, ha la piena consapevolezza che la propria esistenza si svolga su un palcoscenico sul quale troppe volte la storia ha mandato in scena i propri drammi.
Ecco perché la voce di «Ai preât», voce di donna, forse una giovane donna, come le tante ferite e schiacciate dai conflitti in corso ai giorni nostri o da uomini che non conoscono il rispetto, si rivolge a Maria e a tutti i santi per riavere a casa il proprio amore: la pace, quella universale, passa proprio da lì, da un amore realizzato come si augura il canto, da una donna e un uomo che si ritrovano e si stringono l’un l’altra in un legame che è segno dell’eterno. I friulani lo sanno e lo esprimono in ogni loro preghiera. Per questo c’è da augurarsi che venga data piena cittadinanza nella liturgia al Messale in friulano. Sarebbe un vero e proprio gesto di pace e profezia per i nostri giorni.