L’arcivescovo di Modena-Nonantola Erio Castellucci, presidente della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, la catechesi e l’annuncio
La preghiera come dialogo d’amore, che non ha bisogno di frasi mirabolanti o immagini di alta poesia, perché cresce nel rapporto cuore a cuore. L’umiltà e la disponibilità come condizioni necessarie per aprirsi all’azione della grazia, per accettare la logica della salvezza che viene da Dio. E si realizza, per così dire è resa possibile, dal rapporto con gli altri. Un atteggiamento di fiducia, di legame filiale tra la creatura e il Creatore che trova semplice e al tempo stesso profonda sintesi nel libretto ”Chi prega si salva”, in cui sono raccolte le preghiere più note della tradizione cristiana. A partire dalla famosa espressione, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori scelta come titolo. E che nella sua formulazione completa suona un tantino inquietante: chi prega si salva, chi non prega si danna. «Credo che sant’Alfonso non intenda proporre, con questa espressione, una “teoria universale” riguardante la salvezza o la condanna, ma muoversi dentro all’orizzonte del credente – spiega monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e neo presidente della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, la catechesi e l’annuncio –. In altre parole, il suo interesse è concentrato sul cristiano: in questo senso chi prega si salva e chi non prega si danna. Chi prega, cioè, mantiene quell’apertura umile e disponibile al Signore che è il requisito fondamentale per lasciare entrare nel cuore la grazia. Chi non prega, si illude di tenere in mano la propria vita da solo, si chiude ermeticamente all’amore di Dio, crede di salvarsi da solo. Papa Francesco direbbe che cade nel pelagianesimo ».
Nel libretto sono raccolte le preghiere più semplici della vita cristiana, quelle che impariamo da bambini, in famiglia i più fortunati o al catechismo. Perché è importante “frequentarle” anche da adulti?
La memoria orante, come quella liturgica, rappresenta per l’essere umano un punto di riferimento costante nella vita. Tante persone, che poi nemmeno proseguono nella pratica della fede cristiana, continuano quotidianamente a recitare almeno in qualche circostanza le preghiere imparate da bambini. È come il recupero costante di quella dimensione fanciullesca che abita sempre dentro di noi, anche a ottant’anni; e che mantiene viva la condizione posta da Gesù per «entrare nel regno dei cieli»: diventare come bambini. Di nuovo è questione di umiltà e disponibilità.
Quindi la preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito, come l’adorazione o la preghiera del cuore.
Nella preghiera non ci sono le categorie, come nel calcio. Niente serie A, B o C. Piuttosto c’è un modello, al quale ogni preghiera si riconduce: il Padre Nostro, che i padri della Chiesa chiamavano oratio dominica, la preghiera del Signore. In quella breve preghiera, che tutti conoscono a memoria, Gesù suggerisce ben quattro domande: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la custodia dalle tentazioni e la liberazione dal male. Richieste per il corpo, la mente e lo spirito. Queste richieste sono precedute dalla lode, per mettere in evidenza che non sono richieste fatte dagli schiavi al padrone o dai clienti al negoziante, ma dai figli al Padre. Chiedere, quindi, è da figli: purché avvenga nel rispetto della grandezza del Padre. Se siamo figli, dobbiamo chiedere umilmente.
Nella prefazione alla nuova edizione del libro il Papa cita anche una buona preparazione al sacramento della Confessione. Troppe volte abbiamo quasi paura di essere perdonati.
È vero. Forse la difficoltà di prepararci dipende anche dalla sensazione sgradevole che ciascuno di noi prova di fronte ai propri limiti e peccati. Prepararsi significa riflettere, concen-trarsi, calarsi nella propria condizione fragile: e questo dà fastidio. Ma è necessario, se vogliamo sperimentare la misericordia di Dio e correggere i nostri difetti.
Come preparazione al confessionale, che cosa consiglia?
Prima di tutto di ripetere lentamente il “Padre Nostro”, che rappresenta quasi un esame di coscienza: non è infatti la preghiera dell’io, ma la preghiera del noi. «Dacci», «rimetti i nostri debiti », «non ci indurre», «liberaci». È la preghiera di una comunità: mentre dunque chiedo per me, chiedo per noi. E mi interrogo su come io mi rapporto agli altri. Se domando il perdono dei miei debiti, so poi rimetterli ai miei debitori? Se domando il pane per me, so poi condividerlo con gli altri, con quelli che insieme a me formano il “noi” e hanno diritto come me al pane quotidiano?
E per imparare a pregare da dove si comincia?
Si comincia dal cuore, non dalla carta. O meglio, la preghiera scritta e imparata a memoria deve diventare preghiera del cuore, relazione con il Signore. Quando uno si innamora, non si preoccupa di andare a cercare su Internet le frasi giuste da dire. Sarà la relazione a suggerirle. Bastano poche formule - ripeto, Gesù ce ne ha data una esemplare e la Chiesa ce ne offre alcune essenziali - ma occorre molto affetto. Le preghiere stesse incentivano l’affetto, perché l’espressione dell’amore aumenta il grado stesso dell’amore. Se io voglio bene a una persona, ma non glielo dico mai, non scatta la relazione e facilmente quell’amore si raffredda. Così con Dio: non resiste e serve a poco una fede “intellettuale”, fredda, che non si rivolga mai a lui.
Se posso permettermi… c’è una preghiera che lei sente particolarmente “sua'” che la accompagna da sempre?
A questo punto è chiaro che la mia preferita è il Padre Nostro. Dico spesso anche l’Ave Maria. Fin da piccolo ho imparato la preghiera del Rosario, che recito ogni giorno. È come una ripetuta professione d’amore verso la Madre. Quando, insomma, ci si rivolge a Dio come Padre e a Maria come Madre, ci si sente ben custoditi e spronati ad essere paterni e materni verso i fratelli.