L’Abbazia di Montecassino ricostruita - Archivio
(Igor Traboni) L’abate emerito di Montecassino e arcivescovo emerito di Gaeta, Bernardo Fabio D’Onorio, ha presieduto ieri la Messa solenne per gli 80 anni dalla distruzione dell’Abbazia, concelebrata dall’abate dom Luca Fallica. Nel corso dell’omelia monsignor D’Onorio – oggi 84enne, che a Montecassino entrò studente adolescente, ne è divenuto abate nel 1983 e vi è rimasto fino al 2016, quando Benedetto XVI lo nominò arcivescovo di Gaeta - ha fatto subito riferimento a quel tragico evento del 15 febbraio 1944, chiedendosi perché proprio Montecassino: «Ancora oggi ce lo domandiamo e tentiamo di dare qualche risposta, ma nessuna spiegazione di carattere politico o militare riesce a giustificare un gesto così insano. Ma oggi facciamo memoria sì della triste distruzione dell’abbazia, ma anche della sua ricostruzione. E così della amata Cassino. Cantiamo la nostra gioia pensando al celebre motto Succisa Virescit: l’abbazia è risorta, forse più bella di prima, voluta “come era e dove era” dall’indimenticabile abate Ildefonso Rea che così realizzava, con rara competenza, il programma di ricostruzione».
D’Onorio, che di Rea è stato segretario, ha poi voluto ricordare altri eventi del post ricostruzione non meno importanti, come la visita, nell’ottobre del 1964, di papa Paolo VI «il quale sulla scia dei suoi predecessori riconsacrò questa magnifica Cattedrale che richiama la precedente Basilica dallo stile inconfondibile. È proprio da questa cattedra che papa Montini proclamò san Benedetto patrono principale dell’Europa, evento di portata storica e di alto significato per la vita monastica e civile. Il Papa invitò i figli di san Benedetto a fare della pace un emblema da scrivere “sulle soglie” dei monasteri, ma “ancora meglio” da imprimere come legge “soave e forte” nei loro animi. Chi viene a Montecassino è subito accolto dal motto Pax che è augurio e sollecitazione non solo per monaci anche per molti altri».
Avviandosi a concludere l’omelia, monsignor D’Onorio ha voluto ulteriormente sottolineare come oggi tutto a Montecassino parli di pace, «perché è stata la pace che ha fatto risorgere queste mura, faro di spiritualità e di civiltà per secoli, grazie all’opera illuminata di abati e di monaci che hanno qui profuso amore, intelligenza e lavoro non comuni».
Da parte dell’abate dom Luca Fallica c’è stata poi la sottolineatura, il desiderio e la preghiera «affinché anche la distruzione della nostra Abbazia e della città di Cassino siano davvero partecipi del mistero pasquale. Esse sono tornate a vivere dopo le distruzioni belliche, ma la Pasqua esige da noi di più: di essere, proprio perché custodi di una memoria che non dimentica il dolore, la sofferenza, i troppi morti, essere e diventare in modo sempre più efficace annunciatori, come san Benedetto, di pace, artefici di pace, costruttori di pace, ricordando la beatitudine di Gesù: beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Essere figli di Dio, cioè uomini e donne autentici, nella piena fioritura della loro umanità creata da Dio a sua immagine e somiglianza, significa essere facitori di pace, ovunque si svolga la nostra vita e si attui il nostro impegno». Questa celebrazione, ha poi rimarcato dom Fallica, esprime anche «il desiderio di un impegno nel presente, secondo la spiritualità benedettina ricordata da Paolo VI: attraverso la croce, l’aratro e il libro dobbiamo davvero tutti, ciascuno secondo la sua competenza, impegnarci a disegnare quello che Giorgio La Pira chiamava “il sentiero di Isaia”, un sentiero di pace in cui appunto le armi fossero trasformate in aratri, come scrive Isaia -; sentieri nei quali – l’espressione era proprio di La Pira e oggi viene spesso ripresa da papa Francesco – si potesse “abbattere il muro di diffidenza tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti”».
Montecassino si avvia ora a conoscere altri momenti importanti legati alla sua storia, ad iniziare dal 60° di consacrazione della Basilica da parte, come detto, di Paolo VI.
Per tornare invece a monsignor D’Onorio, c’è da aggiungere che l’altro ieri è stato insignito del titolo di cittadino onorario di Cassino. E in molti hanno voluto ricordarne l’impegno per la città e il territorio ciociaro. Come quando, nottetempo e a bordo di una utilitaria, partì alla volta di Torino per andare a parlare direttamente con Gianni Agnelli, scongiurando così la paventata chiusura dello stabilimento Fiat di Piedimonte San Germano e il licenziamento di 900 persone.
Quelle bombe stupide che aiutarono il Reich
L’Abbazia di Montecassino devastata dalle bombe anglo-americane - Archivio
(Gianni Santamaria) «La distruzione dell’abbazia è stata un atto deliberato e stupido, motivato da analisi affrettate». Non usano mezzi termini Marco Gioannini e Giulio Massobrio nel saggio L’Italia bombardata (Mondadori, 2021) che analizza la storia della guerra di distruzione aerea dal 1940 al 1945. «Dovranno passare molti anni dalla fine della guerra prima che americani e inglesi ammettano che il monastero non era un’installazione militare nemica», sintetizzano gli studiosi.
Fu, insomma, un involontario favore alla strategia difensiva tedesca e alla propaganda dei vertici militari del Reich, su questo la storiografia è ormai unanime. Infatti, quando il 15 febbraio del 1944 più di 200 bombardieri americani rasero al suolo il monumento, a supporto dell’offensiva a tenaglia di truppe neozelandesi e indiane, in realtà l’abbazia non era occupata da truppe del Reich, che però si trovavano nei dintorni e ne approfittarono per insediarsi tra le rovine, trovandovi il terreno fertile per condurre una battaglia di terra. Questa si protrasse fino al 18 maggio, quando il Corpo d’armata polacco guidato dal generale Wladyslaw Anders riuscì a sconfiggerle.
Fu l’epilogo di una vicenda che aveva visto, a partire da gennaio, ben quattro battaglie intorno al luogo di preghiera che, nei mesi in cui questo stillicidio è durato, fu oggetto di numerose trattative diplomatiche per salvare alcuni tesori artistici e librari, portandoli in Vaticano, e per preservare le stesse mura. Anche tra gli alleati non ci fu accordo. Più dubbiosi gli americani, meno gli inglesi e i neozelandesi. Fino ad arrivare al fatto compiuto (e largamente annunciato). L’attacco distruttivo fu persino immortalato dalle cineprese. E la notizia ebbe un risalto mondiale.
La colpa dell’antichissimo cenobio fondato da san Benedetto nel VI secolo fu quella di trovarsi in un punto sopraelevato e strategico della linea Gustav, epicentro dello scontro in quei mesi decisivi per il Secondo conflitto mondiale. E con i monaci a soffrire dell’occupazione tedesca e degli scontri per debellarla furono i civili della zona (alcuni dei quali si erano rifugiati nel monastero e perirono nel bombardamento).
Oltre alle vicende militari e all’eroismo dei liberatori, la storiografia da tempo si sta interrogando su questo capitolo che riguarda le popolazioni loro malgrado coinvolte nello scenario meridionale e su scala nazionale. La gente di Cassino – e dei paesi vicini – era stremata dalle privazioni, dalle razzie di cibo e bestiame e dai rastrellamenti di uomini perpetrate dai tedeschi. E conobbe anche il triste capitolo delle “marocchinate” – le violenze sessuali compiute dai nordafricani inquadrati nel contingente francese –, fenomeno portato alla luce nel Dopoguerra dal romanzo di Alberto Moravia La Ciociara, nonché dal film con Sophia Loren. A quelle vicende sono ispirate anche numerose opere non solo di storia e memorialistica, ma anche di narrativa, tra le quali Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek (Guanda, 2010).
Un ruolo, quello dei civili, che non fu certo passivo: secondo la storica Daria Frezza – che ne ha parlato nel 2014, in occasione del 70°, alla trasmissione televisiva Rai “Il tempo e la storia” – si trattò di una vera e propria «resistenza civile» all’oppressore tedesco. Gli uomini si rifiutarono di collaborare come lavoratori coatti per il Reich e fuggirono in montagna. E anche le loro famiglie rifiutarono di essere portate via dalle case a rischio della propria incolumità. In quella confusione «l’unica presenza – aggiungeva la storica – era quella della Chiesa con figure di preti, parroci, lo stesso abate Diamare, che si prodigava per la popolazione». Un copione che purtroppo si ripete in altre epoche e altre latitudini.