Il missionario trentino Elio Croce - Fermo immagine da una videointervista su Youtube
Era noto per il suo fare burbero e il cuore tenero, fratel Elio Croce. Il missionario, tra i più apprezzati dalla comunità italiana in Uganda, ci ha lasciati mercoledì. Sopravvissuto a Ebola, è stato stroncato dal coronavirus e a salvarlo non è bastato il trasferimento da Gulu, dove risiedeva, alla capitale Kampala. Trentino, originario di Moena, 74 anni, fratel Elio aveva scoperto l’Africa fin da piccolo. Ascoltava infatti con estremo interesse le storie affascinanti dei missionari che tornavano nelle sue valli dal continente nero.
Sebbene gli anni della sua istruzione li avesse trascorsi in zone fredde, tra le Dolomiti e l’Inghilterra, il suo destino era di brillare e poi spegnersi accarezzato dal caldo africano. Dopo il diploma da perito meccanico e un corso presso l’ordine dei Comboniani, fratel Elio arrivò nel 1971 in Uganda, “la perla dell’Africa”. Sapeva di essere nel posto giusto al momento giusto. Il Paese aveva appena subito un colpo di Stato. Il brutale dittatore, Idi Amin Dada, aveva l’abitudine di eliminare qualsiasi oppositore, vero o immaginario. Ci voleva comunque ben altro per spaventare il religioso.
Durante quegli anni bui, fratel Elio si è preso cura di migliaia di persone tanto nella capitale Kampala, quanto nei villaggi vicini. Spostatosi nel 1986 nella città settentrionale di Gulu, al tempo un villaggio, aveva iniziato a collaborare con l’ospedale Lacor dei coniugi Piero e Lucille Corti. In quel periodo nascevano i ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra). Il leader, Joseph Kony (ancora latitante, ndr), era noto per la sua ferocia. Per seminare terrore tra la popolazione, l’Lra faceva rapimenti di massa e trasformava i bambini in soldati amputando mani, braccia e labbra.
La leggenda di fratel Elio, il “difensore dei più deboli”, cresceva. Il missionario trentino negoziava la liberazione di bambini, operatori umanitari e religiosi parlando ai ribelli (alcuni li aveva visti crescere) nella loro lingua, l’acholi. Successe persino che ne sfidò uno fisicamente, atterrandolo in pochi secondi.
Nel 2000 neanche l’epidemia di Ebola lo spaventò, mentre aiutava fuori e dentro il Lacor. Poco dopo aveva iniziato l’orfanotrofio di St. Jude. Grazie al sostegno di donazioni provenienti in gran parte dalla sua terra d’origine, offriva cibo, istruzione e alloggio. «I miei “figli” sono ormai cresciuti – mi aveva detto a maggio, svelando un po’ di orgoglio –. Ora, con la pandemia di coronavirus in corso, sono loro ad aiutare l’orfanotrofio».