L'esterno della cattedrale-santuario dedicata a Madre Teresa a Pristina
Il 4 settembre 2016, nel proclamarla santa, papa Francesco diede voce al pensiero di tutti: continueremo a chiamarla semplicemente “madre Teresa”. Un’immagine dolcissima a fotografare una realtà lampante. Per chi la conosceva, la santità di madre Teresa di Calcutta era talmente vicina, semplice, «scontata» verrebbe voglia di dire, da non fare quasi notizia. Un contatto così intenso e costante con il Padre, da esprimersi nell’attenzione privilegiata ai suoi figli prediletti, cioè gli ultimi, gli abbandonati, gli scartati. La «piccola matita di Dio», come amava definirsi, è stata una madre soprattutto per loro, per le persone lasciate morire agli angoli delle strade, per i malati che nessuno si preoccupava di curare, per la vita debole, a cominciare dalla difesa del più misero di tutti, cioè il bambino che rischia di non vedere la luce. Ma riferimento materno, la religiosa è stata anche per i Paesi di cui in realtà fu figlia. L’Albania che nel 1910 le diede i natali e l’India dove crebbe e si sviluppò, nella preghiera, la sua vocazione di missionaria della carità, fino a raggiungere e oltrepassare i confini dei territori più distanti e dei cuori in apparenza meno disponibili. Un legame, un ponte, principalmente spirituale oltre che geografico, che sembra rafforzarsi oggi, a vent’anni dalla morte (5 settembre 1997) e nel primo anniversario della canonizzazione. Proprio martedì prossimo infatti, nel giorno della sua memoria liturgica, a Pristina, oggi capitale del Kosovo verrà consacrata la Cattedrale-santuario che le è stata dedicata. A presiedere la celebrazione sarà l’inviato speciale del Papa, il cardinale Ernest Simoni Troshani, a sua volta figlio dell’Albania dove pagò la fedeltà al Vangelo con il carcere e la persecuzione a opera del terribile regime comunista.
L’edificio sacro, in stile romanico, sorge nel centro della più grande città del Kosovo. L’architetto è un italiano, il romano Livio Sterlicchio e il terreno per la costruzione fu messo a disposizione dal defunto presidente Ibrahim Rugova, sostenitore appassionato del progetto. La posa della prima pietra risale al 26 agosto 2005 ma i lavori veri e propri iniziarono il 5 settembre di due anni dopo. Ad accelerare in modo decisivo la costruzione, frenata dalle morti di Rugova e del vescovo Mark Sopi è stato monsignor Dodë Gjergji. Siamo riusciti nella realizzazione «grazie alla Provvidenza – ha spiegato nei giorni scorsi il vicario generale dell’amministrazione apostolica di Prizren –, soprattutto in virtù delle donazioni dei nostri fedeli e degli albanesi all’estero». Più ancora dei soldi, dunque, poterono la generosità e il cuore dei fedeli, della gente semplice. Il risultato è una chiesa imponente, alta 32,50 metri sormontata da due grandi campanili, larga 42,30 metri per 77,40 metri di lunghezza.
Il santuario – spiega il Consiglio per la comunicazione dell’amministrazione apostolica di Prizren – ha due obiettivi principali: «far tornare e incarnare nelle nostre menti e nei cuori la vita e il messaggio di madre Teresa, così come la sua intercessione per la nostra Chiesa ed il nostro popolo. Una scuola da cui cercheremo di imparare, per metterle in pratica, la cultura della vita e la civiltà dell’amore, virtù che lei fece proprie tra di noi, e poi testimoniò e portò nel mondo intero».
La Cattedrale come eredità visibile della spiritualità di madre Teresa, dunque, della sua missione di servizio degli ultimi, a cominciare dai più dimenticati e soli. Un itinerario di santità percorso giorno dopo giorno nelle varie tappe della sua esistenza, felice ma anche contrastata, spesso non compresa, soprattutto dai grandi della terra. «Questa instancabile operatrice di misericordia – disse papa Francesco un anno fa – ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione». Uno stile da adottare nelle scelte decisive della vita come nei gesti più semplici. Nella gioia, come nell’aridità, e lei la sperimentò a lungo tenendola per sé, dell’apparente silenzio di Dio. Perché ciò che conta non è mettere in mostra se stessi ma lasciarsi abitare dall’Assoluto, non è fare discorsi memorabili ma saper usare il vocabolario della carità, non è fare cose grandi ma permettere alla preghiera, alla contemplazione di diventare vita. Non a caso sulla semplice tomba bianca di madre Teresa, della piccola grande madre, premio Nobel per la pace 1979 è inciso un semplice versetto del Vangelo: «Amatevi gli uni altri come io ho amato voi». Il segreto sta tutto lì.