Don Luigi Giussani durante una lezione - Archivio Avvenire / Cl
Cosa rende credibile il cristianesimo in un mondo ormai post-cristiano? Come si può vivere la fede da protagonisti dentro la modernità senza farsi inghiottire dalla secolarizzazione? Sono gli interrogativi con cui si è misurato per tutta la vita don Luigi Giussani, e sono le sfide da cui è nata Comunione e Liberazione.
In una lettera indirizzata a Giovanni Paolo II nel 2004 scriveva: «Ritengo che il genio del Movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta». Un ritorno all’essenziale, dunque, capace di superare quella riduzione della vita religiosa alla celebrazione di riti e al rispetto di regole che già negli anni Cinquanta del secolo scorso stava erodendo dall’interno una Chiesa che era ancora molto presente ma rischiava di diventare sempre più insignificante.
Ed è proprio dal recupero dell’essenziale che si è sviluppata una capacità di affascinare tanti giovani in cerca di senso per l’esistenza, e insieme un dialogo con la modernità che non le fosse subalterno. Di questo ragiona Robi Ronza, giornalista e scrittore, per molti anni portavoce del Meeting di Rimini, nel libro Luigi Giussani. Comunione e Liberazione & oltre (Edizioni Ares), in cui propone una sintetica disanima del suo pensiero e della storia del Movimento. Con una notazione particolare: «Noi ciellini ne siamo sì i primi eredi, ma non gli eredi esclusivi». Già, perché nella Chiesa il carisma è un dono affidato a una persona per il bene di tutta la comunità cristiana e per il mondo.
Lo stesso Giussani, in Generare tracce nella storia del mondo, scrive: «Il carisma è come una finestra attraverso cui si vede tutto lo spazio. La riprova di un carisma vero è che apre a tutto, non chiude». Conferma di queste parole viene ad esempio dal successo che continua a registrare il Meeting di Rimini, in cui una forte identità si coniuga con la capacità di incontrare le voci della cultura contemporanea, di riconoscere e valorizzare grandi esperienze umane, di dialogare con chiunque abbia passione per l’uomo.
Ronza ha avuto con Giussani una lunga frequentazione: il primo incontro risale al 1955, quando frequentava il liceo classico di Varese e la Gioventù Studentesca guidata dal sacerdote si stava diffondendo nella diocesi di Milano. Un incontro rimasto impresso in maniera indelebile: «Eravamo abituati a preti molto clericali nei modi, ma poi in sostanza molto laici nei contenuti. Ciò che invece subito mi colpì in don Giussani era il suo stile molto laico, malgrado l’abito talare allora di rigore, e viceversa il suo aperto proclamare Cristo sia come centro della storia che come risposta ai nostri problemi esistenziali. Non si poteva immaginare niente di più lontano da ciò che ci veniva detto e insegnato al liceo, e anche niente di più lontano da ciò che avevo ricevuto dalla famiglia e dall’ambiente laico-borghese di tradizione risorgimentale in cui ero nato e cresciuto».
La parte finale del libro mette in evidenza la linea di continuità tra il fondatore di Cl e il suo successore, don Julián Carrón, che continua ad attingere ai testi e alla testimonianza del “Gius” ponendo l’accento sulla riscoperta dell’io e sulla necessità di trovare risposta alle grandi domande esistenziali in un’epoca in cui il nichilismo è divenuto cultura di massa e in cui l’uomo è sempre più confuso e disorientato. Sulla scia di Giussani, Carrón ripropone la cultura dell’incontro come via maestra per uscire dalla crisi esistenziale del nostro tempo. C’è qualcuno in grado di strapparci dal nulla, e anche oggi è possibile incontrarlo: un Dio che si è fatto carne e di cui possiamo riconoscere il volto in quello dei suoi amici.