L'arcivescovo-vescovo di Nola Beniamino De Palma, oggi emerito, in una foto di archivio - Ansa
Lettera di un vescovo emerito ai fratelli sacerdoti
Carissimo fratello, figlio, amico.
Consentimi, innanzitutto, la possibilità di raggiungerti e la libertà con cui ho deciso di rivolgermi a te in questo modo. Sono termini usuali e qualche volta usurati, ma che racchiudono ed esprimono modi di essere, relazioni profonde per le quali, non di rado, scarseggiano spazi per raccontarsi. In questa nostra cultura, satura fino alla nausea di parole, viviamo, purtroppo, sentimenti, che si espongono al rischio di apparire vuoti ed equivoci. Addirittura ambigui.
Non mi stupirebbe se questo foglio tra le mani ti stesse inducendo a una serie di giustificate domande. In effetti, è probabile che non ci siamo neanche mai incontrati e ignoriamo se mai accadrà… Quale senso dare, allora, a questa “insolita” e inaspettata comunicazione?
Esprime semplicemente il desiderio spontaneo di consegnarti con pudore la mia fraternità e la mia stima, la voglia di dirti “coraggio, mio giovane amico!”, non lasciarti intimidire da questa storia ferita, opaca e compromessa, che da molto vicino riguarda anche la Chiesa di Cristo, nelle cui membra sembra più facile riscontrare piaghe di umana fragilità che non le stimmate del santo Corpo trafitto e risorto, attraverso le quali lasciar fluire torrenti di Luce e fiumi d’Acqua viva. Ma noi crediamo nella ostinazione del nostro Dio che non smetterà mai di operare per la salvezza del suo popolo.
Mi è grato, inoltre, poter condividere con te alcune opinioni e pensieri, con l’augurio di non sottrarre troppo tempo prezioso ai tuoi impegni né ai tuoi interessi. Sono certo che non ti occorrono discorsi devoti: hai la tua meditazione, hai l’occasione di riflettere sulle parole e le pagine, che ci raggiungono dal Santo Padre, dai nostri superiori e dai nostri vescovi, sei anche tu immerso nel clima interiore di questo tempo straordinario e sospeso che è la “grande Settimana”, il cammino che ancora una volta ci condurrà nel cuore e alla fonte della nostra esperienza cristiana, nell’accecante chiarore della Pasqua di Risurrezione.
Approfitto, intanto, per ringraziarti della pazienza e del tempo, che deciderai di donarmi. Libero, ovviamente, di interrompere già qui (o quando lo deciderai) di proseguire nella lettura di queste mie righe…
Sono TRE, in particolare, gli spunti sui quali proverò a raccogliere qualche riflessione. Attingo, ovviamente, alla Parola di Dio, che dovrebbe costituire per noi presbiteri il pane quotidiano, elargito con generosità per il nostro nutrimento e perché possiamo spezzarlo e distribuirlo ai troppi affamati del Mistero, ai cercatori smarriti di Verità dei quali – per scelta, per vocazione, per missione – abbiamo da prenderci cura.
1. “Noi speravamo… ma ormai…” (Lc 24,21).
Sono espressioni usate dall’evangelista per descrivere il malinconico stato d’animo di due discepoli, che si allontanano dal Cenacolo per ritrovarsi confusi e soli sulle loro strade, lungo le quali non sarebbero tornati che a una storia, forse mediocre, da cui erano stati tratti dall’invito del Maestro. E avevano deciso di seguirlo. Nel momento cruciale, però, non hanno resistito. Li ha ingannati la pretesa di “rimpicciolire” Dio ai loro schemi e alle proprie attese. Sono caduti in un “ateismo pratico”, che gli lascia l’amaro in bocca e la delusione nell’anima. Allora “evadono” dal cenacolo. Si separano, cioè, dallo spazio della Parola che avevano ascoltato, dall’ora in cui avevano vissuto il gesto del Servo di Jahve, che, lavandogli i piedi, purificava le radici del loro essere. Sono in fuga dalle mura in cui avevano celebrato la vera e definitiva Pasqua dell’Agnello. Si sono esclusi dalla comunità, che il dono dello Spirito avrebbe reso fermento vivace per una nuova umanità. I due viandanti di Emmaus avevano preso distanze anche da Colei, che è fonte, icona e dolcissima Madre di ogni speranza.
A volte può accadere anche a noi, frequentatori del Cenacolo, di separarci affettivamente dai contesti nei quali riceve senso la nostra vita di consacrati. Lontani dall’Eucaristia, Pane vivo e vero, cerchiamo invano sazietà altrove. Sulle orme del “figlio della parabola”, ridottosi a invidiare le carrube di cui si pascola la mandria di porci, che è obbligato a vigilare (cfr. Lc 15,15-16). Lontani dalla Vergine dell’ascolto orante, ci priviamo della tenerezza dell’abbraccio del Padre e dell’ardore della sua Parola, che infiamma i cuori. Lontani dalla comunità presbiterale, ci corrompiamo in “mestieranti del sacro”, ambiziosi concorrenti e antagonisti tra di noi, che sgomitano per i primi posti, abbagliati da miraggi di onori, di incarichi e di potere, dimentichi della lezione dell’umiltà e dello sforzo di aspirare ai carismi più grandi e degni (cfr. 1Cor 12,31). Sottratti alla Pentecoste, gli affanni del nostro ministero risuoneranno come fastidiosi rintocchi di cembali arrugginiti (cfr. 1Cor 13,1).
2. “Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: È il Signore!” (Gv 21,7).
Quanto spesso anche noi ci lasciamo intimorire dalle onde, che scuotono la nostra traballante e fragile barca e ci ritraiamo sconfortati dalle inutile fatiche, che ci restituiscono ironicamente solo reti gocciolanti e vuote? Quante volte scrutiamo da ogni lato l’orizzonte, ma i nostri occhi miopi non riconoscono la Presenza, che ci attende sulla riva? Quante volte veniamo sopraffatti dalla paura di privarci delle nostre sicurezze per affidarci all’Unico, che ha il potere di salvarci? Egli ci invita a uscire dai nostri mondi chiusi e meschini per afferrare senza esitare la sua mano. Ci chiede di continuare ottimisti i nostri cammini, nonostante venti contrari, notti oscure e maree tumultuose.
La Chiesa del terzo millennio ha bisogno di uomini capaci di concretizzare in stili di vita coerenti l’obiezione e l’alternativa scaturita dall’esempio di Gesù di Nazareth, alla Chiesa oggi occorrono servi alacri e vigilanti, che tengano viva la fiaccola della carità e reagiscano alle imperative logiche edonistiche del mondo convalidando giorno dopo giorno la propria totale donazione cui solo una esistenza tutta immersa in Cristo può dare valore ed energia (cfr. Fil 1,21).
3. “Coraggio, sono io, non temete!” (Mt 14,27).
Grazie a lunghi anni di seminario, di esercizi spirituali, di ministero pastorale abbiamo imparato a scorgere il Deus absconditus nel pane santo dell’altare, che si frantuma nelle nostre mani non sempre innocenti, abbiamo imparato a percepirlo nella penombra silenziosa delle nostre chiese, a intercettarlo tra i labirinti della Scrittura, che ci propone sempre una porta serrata di cui ancora non possediamo la chiave. Quanta fatica, però, a credere in Lui quando ci provoca a toccare le sue piaghe e a condividere con Lui “qualcosa da mangiare”! Riconoscerlo nel suo imperscrutabile nascondersi sotto i veli di sofferenza e di repulsione degli ultimi rimane una delle prove più ardue per la nostra debole fede. Conserva la sua verità l’affermazione del filosofo: “C'è abbastanza luce per chi vuole credere e abbastanza buio per chi non vuole credere.” (B. Pascal).
La diakonia è il modo di essere di quanti sono mandati a servire e a dare la vita e non per essere serviti (cfr. Mc 10,45). La charitas Christi (cfr. 2Cor 5, 14) ci sollecita non come operatori sociali o filantropi: i poveri sempre con noi (cfr. Gv 12,8) non costituiscono una minaccia, ma sono benedizione. Vanno accolti, amati e serviti convinti che saranno loro, i cenciosi, gli esclusi, gli scomunicati, ad accoglierci alla soglia del Regno e intercederanno per noi preso il Giudice supremo. Questo pensiero è stato uno dei principi di fondo che hanno ispirato l’essere e l’agire di Vincenzo de Paoli fino all’ultimo dei suoi giorni.
A conclusione delle mie parole, vorrei innanzitutto ancora ringraziarti se hai continuato a leggere fin qui.
Ritengo, poi, doverosa una considerazione sul triste e faticoso momento, che in maniera così globale e devastante stiamo attraversando.
In questo tempo difficile le nostre chiese, insieme a tanti altri luoghi pubblici abituali della normale vita quotidiana, sono chiuse o, diversamente, deserte e silenziose.
Paradossalmente, ci ritroviamo a predicare… ai banchi, a catechizzare le distanze, a raccomandare alla nostra gente di rimanersene a casa. La sofferenza e il disagio non si riescono a quantizzare. Il conforto di Dio è escluso sia per i vivi che per i morti. I sacramenti che ritmano il vivere sociale sono procrastinati in date, che non abbiamo potere di calendarizzare. Ogni percorso di formazione cristiana è interrotto sia per gli adulti che per i giovani e i fanciulli. Siamo interpreti di una tragedia in scenari che non avremmo mai voluto conoscere.
In qualche modo ci soccorre l’utilizzo della tecnologia, che ci ha resi tutti (dal Papa all’ultimo prete in cura di anime) “pastori digitali”, offrendoci almeno la possibilità di continuare a svolgere “in solitaria” le sacre funzioni e ad esercitare il ministero, pur rimanendo privati del contatto diretto con il nostro popolo.
Dalla propria sagrestia o dall’ufficio o dal salone parrocchiale sono in tanti a connettersi tramite i “social”, per entrare nelle case delle persone e raggiungerle per un saluto, una riflessione, un incoraggiamento.
È importante che un prete faccia sentire il calore della propria vicinanza e la propria condivisione in tale frangente colmo di angoscia e di domande prive di risposte immediate e rassicuranti
Forse anche tu sei atteso da famiglie, che si radunano dinanzi a uno schermo per assistere alla santa messa, partecipare alla preghiera del rosario, tener vive antiche devozioni alle quali siamo così affezionati. Gli ammalati e gli anziani sono tra le fasce più penalizzate.
Il Covid-19, crudele per il malessere e l’inquietudine che sparge, non può impedirci di pensare, di confrontarci, di svolgere il nostro ruolo di guide e di formatori, perché il sospetto di essere da noi abbandonati non appesantisca ulteriormente l’attuale forzata solitudine della nostra gente.
Il “tempo delle catacombe” si può dire relegato ormai al passato. Ma viviamo un presente in cui dover scegliere se tristemente subirlo oppure ingegnarci a trasformarlo in occasione preziosa per ravvivare nelle nostre comunità il valore e il senso di “Chiesa domestica”. Non credi possiamo considerare questa emergenza come un “segno dei tempi”? Si tratta di spingere lo sguardo più in là degli orizzonti nebbiosi, che ci avvolgono e rinvigorire la certezza che il Dio di Gesù Cristo non abbandona quanti in lui confidano.
Abbiamo a che fare con una grande sfida la cui posta in gioco coinvolge anche il senso e la credibilità di ciò che siamo. Come preti e come Chiesa.
Alziamo gli occhi verso l’alto: da lì ci verrà l’aiuto (cfr. Sal 120,1-2).
Non ci è consentito smettere di imparare e di insegnare. Anche in questo periodo di passio hominis, che ci mette a dura prova. È il momento di dare alla nostra speranza una “direzione orizzontale” e una dimensione umana e sociale.
Condividiamo un pensiero del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer: “Un divino cui non corrisponda una fioritura dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo”.
Come dire che essersi accostati al “roveto ardente” e aver dimenticato impigliato tra i suoi rami il progetto di renderci liberatori del popolo al cui grido Dio tende l’orecchio, rende improduttiva ogni rivelazione, ogni vocazione, ogni missione.
Spendiamo, allora, caro fratello, una quota di tempo a considerare, insieme ai nostri fedeli, la possibilità di imparare anche da questa sofferenza e da questa malattia. È uno dei percorsi più ardui e scabrosi della fede biblica. Sul cammino della croce, che tanti percorrono, riempi i tuoi occhi con la compassione del samaritano, irrobustisci le tue spalle sotto il Legno, come il cireneo, colma le tue mani di tenerezza, a esempio della Veronica.
Che tu possa attingere forza dalla preghiera e dal santo Sacrificio, che celebri; che nei nocivi momenti di solitudine e smarrimento tu riesca a sentire amorosa accanto a te la compagnia del divin Viandante, che pone i suoi passi accanto ai tuoi accettando le tue lentezze, i tuoi inciampi e le tue contraddizioni.
Ti invito a custodire un cuore indiviso e prego che le tue ferite siano avvolte da bende di misericordia del Dio, che ti ha guardato con predilezione e ti ha scelto per dare compimento alla sua volontà di piantare la sua tenda tra le nostre tende, in mezzo agli uomini. Sii fiero e grato per ciò che sei: un uomo di Dio e una immagine riconoscibile del Buon Pastore per i tuoi fratelli.
Sei destinato ad essere una “magnifica presenza” e renditi degno in ogni modo del compito che hai ricevuto.
Ti lascio con l’augurio che tu decida di frantumare la pietra dei sepolcri che ti tengono prigioniero e di vivere questa Pasqua morendo con Gesù Cristo e risorgendo in Lui: “Noi tutti abbiamo sentimenti insoddisfatti e idee che possono essere attuate solo se viene qualcuno a risvegliarle. Ogni essere umano ha dentro di sé un Lazzaro che ha bisogno di un Cristo per risorgere. Sventurati quei poveri Lazzari che giungono al termine della propria vita senza incontrare un Cristo che dica loro: Alzati!” (Miguel De Uunamuno).
Ti accompagno con la mia benedizione e ti affido a Maria, Regina degli apostoli e Madre dei sacerdoti.
Beniamino De Palma, padre lazzarista, è arcivescovo-vescovo emerito di Nola