Il cardinale Zuppi incontra il presidente ucraino Zelensky a Kiev - Ansa
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista che il cardinale Matteo Zuppi ha concesso alla trasmissione «Soul» condotta da Monica Mondo su Tv2000, che andrà in onda questa sera alle 20.50 sul canale 27 del digitale terrestre.
Come organizza le sue giornate?
Direi in modo abbastanza ordinario, scadenzato. Io vivo nella casa del clero a Bologna e quindi c’è una prima parte di preghiera, e poi cominciano i vari tipi di “danza”, non riesco quasi mai a tornare a pranzo a casa, perché hanno orari diciamo incompatibili con la vita, 12.15 e 19.15 ma quando posso però cerco di andarci. Nella casa del clero tutta la giornata ci sto molto poco.
Mamma lombarda, papà romano, giornalista, cattolici entrambi, cinque fratelli, cresciuto tra la Fuci e uno zio cardinale, Carlo Confalonieri, o diventava prete o ateo convinto, non c’era alternativa.
Dunque, l’alternativa c’era indubbiamente, forse come tanti avrei vissuto un distacco probabilmente da una fede molto vissuta, i miei genitori erano tutte e due sante persone, molto diversi tra di loro.
Che famiglia era?
Papà molto affettivo, mamma molto contenuta, papà più disordinato, creativo, mamma più ordinata e conseguente. Tutte e due con una vita di fede personale, e questo indubbiamente resta, non c’è dubbio.
Infatti siamo al liceo Virgilio, lei incontra un ragazzo che era Andrea Riccardi. Cosa l’ha colpita in lui e nei suoi amici?
La fraternità, l’amicizia, la preghiera e poi l’attenzione ai poveri quindi il senso di giustizia, direi queste tre cose. Qualche volta una viene prima una dopo, una più e una meno, ma sempre tutte e tre insieme; l’amicizia perché si stava insieme, c’era un grande senso di vicinanza, di condivisione. La preghiera, cioè una dimensione spirituale però vicina, mia, non a cui io assistevo dei più grandi. E poi il servizio agli altri, la scoperta del terzo mondo sotto casa, la scoperta di situazioni che erano impensabili per me: io vivevo accanto a San Pietro, andavo a scuola a Via Giulia proprio al centro di Roma, quindi vivevo in un rettangolo molto protetto.
Si è un po’ spento, si è un po’ affievolito lo slancio dei movimenti ecclesiali nati nel post Concilio? Se sì, perché?
Si è un po’ trasformato. Il rischio che si sia affievolito anche per l’età c’è, ma credo a mio parere che rappresentino ancora oggi una grande ricchezza per la Chiesa e per la società civile, sono una grande risorsa di volontariato, di attenzione agli altri. Qualcuno però si è perso, attenzione.
Gli anni da parroco a Santa Maria in Trastevere, cuore e casa per voi della Comunità di Sant’Egidio e realtà viva, e poi gli anni da vescovo, cosa significa essere un pastore?
Vivere la casa. E non in maniera funzionalista, ma in maniera affettiva, personale. Altrimenti se tu hai una vita da una parte e una dall’altra si vive un cortocircuito, o non ci si accorge delle possibilità e si creano delle distanze, delle freddezze. Per cui... sì, la casa. La Chiesa è una casa.
Però se ci sono meno cristiani, forse è perché ci sono meno pastori capaci di affascinarli.
Le due cose sono unite. Non hanno senso i pastori senza la casa, e non c’è casa senza pastori, in un legame appunto che non è funzionalista, ma molto affettivo, quella che si chiamerebbe la comunione. È una cosa che purtroppo valorizziamo poco, coltiviamo poco, ed è la chiave di tutto, perché che senso ha un pastore se non ha casa, se non ha un gregge. Fa il pastore con il bastone? Si pensano insieme, questo è il nodo, e qualcosa che unisce profondamente, è un legame di amore non di ruolo, quando è ridotto a un legame di ruolo allora si impoverisce e si deforma.
Il 1990 è una data importante perché con altri tre amici della Comunità di Sant’Egidio lei svolge il ruolo di mediatore in Mozambico tra il governo del fronte di liberazione e il partito della resistenza, in una guerra civile che durava da 15 anni. Ci sono voluti 27 mesi di trattativa e uno storico accordo, e per tutti è questa esperienza che ha avuto in mente il Papa quando l’ha scelta per una missione che cercasse una strada per la pace tra Russia e Ucraina.
Devo specificare che erano quattro mediatori, due della Comunità di Sant’Egidio, il professor Riccardi e io, il rappresentante del governo italiano e un vescovo mozambicano. Lo dico perché se c’è un segreto è quello di utilizzare le varie possibilità utili a portare la pace. (…) Penso che il Papa non avesse in mente il Mozambico come formula, con l’idea “proviamo a vedere se funziona”. Aveva piuttosto in mente quell’espressione che ha usato in Ungheria: una pace creativa, cioè inventarsi la qualunque per arrivare alla pace, trovare tutti i mezzi e coinvolgere tutti quelli che possono aiutare, per giungere nella direzione della pace. Quindi non è detto nemmeno che si riesca a trovarla, nessuno ha l’ambizione. Credo che papa Francesco abbia sufficientemente chiari i propri limiti, i limiti del ruolo del servizio della Chiesa ma anche le proprie responsabilità, che vive e a cui chiama un po’ tutti.
Come si fa a fare la pace quando i due contendenti non vogliono farla?
Bisogna convincere, bisogna trovare i motivi per cui è più conveniente la pace della guerra. Poi la mia esperienza è che in realtà la pace la vogliono tutti, spesso alle proprie condizioni, e poi c’è il dialogo per capire qual è la condizione che può far giungere alla pace. Ripeto: bisogna mettere insieme le varie possibilità per cui è più conveniente fare la pace che la guerra.
Ci arriveremo? È fiducioso? Perché, vedendo la terra che non pare più santa ma dannata, quest’altro fronte così terribile, abbiamo due situazioni, cruciali nella storia, che sembrano irrisolvibili.
No, la chiave c’è, e la speranza c’è. La speranza non c’è solo quando è tutto bello e chiaro, ma quando devi affrontare il buio per trovare la soluzione. Questa è la speranza, non quando è tutto illuminato. La speranza è quando non vedi un tubo, e devi provare a cercare qualche cosa quando ci sembra che non ci sia niente, questa è la speranza. Il resto sarebbe anche troppo facile. E dobbiamo sempre credere che la pace è possibile. E forse anche attrezzarci di più, perché non ci siano più guerre, cioè anticipare il problema, perché altrimenti diventa tutto più complicato quando le ragioni della guerra creano una situazione davvero infernale. La guerra, da cui è difficilissimo tornare indietro si deve fermare prima: dopo è tutto troppo complicato.
Lei ha fatto lettere, ama la letteratura, poi a un certo punto è entrato in seminario, anche se si era laureato in storia del cristianesimo. Allora le chiedo: perché è entrato in Seminario?
Il legame era soprattutto all’interno della Comunità di Sant’Egidio, il mio modo di vivere la Chiesa. La Chiesa tu non la vivi in astratto, la vivi sempre in un’esperienza, nelle storie, nelle situazioni, e guai, è pericoloso quando è una roba astratta. Nostro Signore ha incontrato quelle persone lì, non ha incontrato delle tipologie, ha incontrato Pietro, Giovanni, Giacomo, quegli uomini lì. E ci ha chiesto di fare altrettanto. Entrare in seminario era un modo per donare la vita, per dare quello che ero, poca roba, ma la poca roba acquista di più se la regali. Ecco questo sì, se te la tieni in genere ci fai poco.
I suoi genitori erano contenti?
Molto preoccupati, perché in realtà erano molto contenti ma preoccupati che la cosa fosse seria.
Come! Suo papà era amico del cardinal Montini…
Appunto proprio per questo, quello era una persona seria, mio figlio no.
Era un ribelle?
Poco in realtà, però un po’ di adolescenza me la sono fatta anch’io. Poca, perché poi la vita quotidiana era complicata dal fatto che essendo in sei non si poteva far troppo adolescenza, a un certo punto le regole del gioco erano chiare. E poi c’era mamma che interveniva e questo mi ha anche molto aiutato perché doveva essere una cosa bella, seria, ci tenevano. Ovviamente erano orgogliosi, fieri di questo, e papà non mi ha più chiamato Matteo, mi ha sempre chiamato Don Matteo. Perché adesso sei Don Matteo, non sei più Matteo. Proprio per dire quanta importanza dava alla scelta.
Qualche volta la Chiesa serve in quanto supplisce al carente welfare statale e quindi è una utile Ong, cioè la Chiesa che fa soltanto, ma allora ci sono altri più bravi.
Qualche volta la Chiesa ha anche una certa idea, a mio parere, deformata pensando di avere il copyright dell’amore, “quello vero è il nostro, quello degli altri vale un po’ di meno”. Mentre scopriamo ovviamente che nostro Signore è molto più largo del nostro cuore e ci fa scoprire tante testimonianze bellissime, incredibili, tanti esempi. “Ma come, tu hai un maestro che così grande e sei così fallimentare”, questa sarebbe la domanda vera. La Chiesa non è una Ong, ma è molto di più. La Chiesa supplisce in molti casi, è molto presa dal sociale... Ma certo, la Chiesa vive nel sociale, non vive in astratto e quando parla dell’amore se non diventa sociale che roba è. Ma la Chiesa non è mai soltanto una Ong, perché sono fratelli tuoi. Con i miei fratelli a casa nostra non facevamo una Ong, facevamo una casa, che è altro.
Parliamo della Conferenza episcopale italiana. Ci sono progetti, cambiamenti, necessità di revisioni organizzative?
C’è una chiarissima indicazione di papa Francesco che la Cei debba essere snella, fare tanto con poco, aiutare a fare tanto, quindi non fare le cose perché abbiamo i mezzi ma usare i mezzi per fare le cose.
C’è un buon rapporto della Chiesa italiana col Papa argentino?
C’è un buon rapporto, dialettico. Un buon rapporto per forza, lo è in assoluto: se uno è cattolico e non ha buoni rapporti col Papa il problema è che forse ti sei dimenticato di essere cattolico, penso io. Con qualunque Papa ovviamente, poi come sempre nella vita uno può sentire per storia, per sensibilità, più vicine delle parole rispetto ad altre, ma quello è sempre il Papa.