Lucia Capuzzi di Avvenire in un fermo immagine della diretta della Via Crucis di Vatican News
Dov’è ora Mercy? Me lo chiedo da venerdì sera. Eppure, fino ad allora, avevo dimenticato il suo nome. La storia no, mi era rimasta impressa. Era stata una delle prime che mi aveva raccontato suor Eugenia Bonetti quando c’eravamo incontrate, qualche anno fa, nel convento delle Figlie di Maria Santissima dell’Orto, a Roma, una mattina d’estate. Mercy, il fagottino seminudo, rannicchiato sulle sterpaglie dietro la Salaria, che chiedeva solo di poter riposare un po’. Quando tornava a casa, all’alba, la “madam” – così chiamava la donna che l’aveva comprata dai trafficanti – le ordinava di fare la doccia e la rispediva sul marciapiede.
“Dormirai quando mi avrai restituito quanto ho pagato per te”, le diceva. E Mercy obbediva per evitare le “punizioni”: il decalogo degli orrori era lungo, si andava dalle botte alla privazione del cibo, dalle bruciature di sigarette alle minacce di rappresaglie sui parenti, in Nigeria. Quella sera, però, la stanchezza l’aveva vinta. A Eugenia, la suora impicciona che si ostinava e si ostina a trattare quelle giovani in vendita come esseri umani, aveva sussurrato: “Sister, non ce la faccio più, sono sfinita…”. Mercy caduta, sotto il peso delle catene della prostituzione forzata. Il suo corpo adolescente manipolato, ferito, sfruttato, torturato, abusato infinite volte.
Ho pensato a lei mentre ho tenuto tra le mani la Croce. L’ottava stazione – quella in cui si medita sull’incontro tra Gesù e le donne – stava per terminare. Il coro intonava già il canto. La Via verso il Calvario, allestito sul Palatino, dove attendeva papa Francesco, doveva proseguire con la riflessione sulla terza caduta di Cristo, schiacciato dal legno al quale, presto, sarebbe stato inchiodato. Portare la Croce per quel tratto toccava a me e a suor Anelia Gomez da Paiva. Ci siamo avvicinate per il “passaggio di consegne”, come ci era stato spiegato. Una luna bianca e piena illuminava la Croce scura. Di fronte il Colosseo, nella sua notturna maestosità. Ho allungato le mani e l’ho presa.
Mentre mi concentravo per tenerla ritta, senza tremare, ho sentito il nome di Mercy. Suor Eugenia – che quest’anno ha curato le meditazioni - ha voluto ricordare anche il suo corpo abbattuto dalla schiavitù, nel momento in cui i cristiani fanno memoria viva della terza caduta di Gesù. Un’associazione ardita? Non so. Ma so che non la ringrazierò mai abbastanza per averlo fatto. Perché il nome di Mercy mi ha scosso dalla tentazione del trionfalismo e dell’autocompiacimento. Di vivere la Via dolorosa di Cristo come una bella quanto momentanea emozione.
È facile portare la Croce per quarantacinque passi, li ho contati. Anzi, accompagnare Gesù fino alla stazione successiva durante la Via Crucis del Colosseo è un dono immenso. Ma quanto è difficile - per me privilegiata, nata dalla parte giusta del pianeta, con in tasca un passaporto-salvacondotto che mi apre le porte di qualunque muro – fare anche un solo passo con qualunque dei troppi crocifissi dei nostri giorni. Quante volte ho evitato di sopportare il loro “peso”? Quante li ho considerati più storie da raccontare che fratelli e sorelle da abbracciare? E quante ancora lo farò? Impossibile rispondere. Ma suor Eugenia e Mercy mi hanno regalato la consapevolezza di vivere il Venerdì Santo come una responsabilità, che va ben oltre i quarantacinque passi di una stazione. La responsabilità dello sguardo. Ora più che mai so che non ho il diritto di voltarmi dall’altra parte. Di scansare con gli occhi e la penna – la tastiera del pc, ormai – le vite crocifisse che mi è dato in dono di incontrare. Di stare lontano - per falso pudore, o paura o pigrizia - dalle loro piaghe. Di scordare il nome di Mercy.