Siciliani
Le parrocchie italiane si scoprono più social. O meglio il mondo digitale non viene più guardato come «l’oggetto misterioso e pericoloso» di un tempo. Complice, come si può intuire, l’attuale pandemia da Covid-19. È quanto emerge in una ricerca condotta da un team multidisciplinare di docenti dell’Università Cattolica di Milano. La ricerca, a dire il vero, intendeva «indagare» sul fenomeno della cosiddetta «società liquida», cioè incapace di creare relazioni e comunità, individuando luoghi dove al contrario la cura della relazione e della comunità è presente. La scelta quasi naturale è stata la parrocchia, osservando nel contempo anche il rapporto di quest’ultima con l’uso dei social. Una indagine partita all’inizio del 2019 e che nel corso del suo svolgimento si è imbattuta nella pandemia, evento che ha dato una svolta alla ricerca.
Una ricerca cambiata in corsa
Hanno risposto 420 comunità
Come ha influito la pandemia
Mai come nella scorsa primavera le parrocchie hanno messo in campo una pastorale nuova e innovativa che ha avuto nei social lo strumento per poter continuare a sentirsi comunità, soprattutto nelle settimane in cui le Messe sono state celebrate senza la presenza dei fedeli e gli italiani erano bloccati in casa.
E allora il team di docenti e ricercatori della Cattolica sono tornati con un secondo questionario - questa volta rivolto solo alle parrocchie che avevano risposto al primo questionario - per leggere i cambiamenti che la situazione della pandemia ha provocato. La seconda fotografia ha fatto emergere così che oltre una parrocchia su due utilizza con regolarità WhatsApp e Telegram (il 56%), la mail (il 54%) e una pagina Facebook (il 50%) per mantenere i contatti e creare relazione nella comunità parrocchiale. Decisamente minoritario l’uso di Twitter (il 15%) e di Instagram (il 26%).
Le parrocchie 2.0
Altro dato interessante è la suddivisione che il team di ricercatori ha fatto delle parrocchie rispetto alle finalità con cui si usano i social. Ecco così la «parrocchia 1.0», cioè quella che usa i social solo per comunicare informazioni (gli orari delle Messe o i giorni di catechismo, per esempio), che forma il 24% del campione censito. Vi è poi la «parrocchia 2.0», nella quale l’uso dei social serve proprio per entrare in relazione e per creare interazione tra i vari soggetti. A questa tipologia appartiene ben il 70% del campione. Un dato davvero sorprendente. Infine vi sono le «parrocchie 3.0», dove attraverso l’uso dei social si collabora e si partecipa alla vita parrocchiale. Anche se nel campione è solo il 6%, di certo rappresenta una realtà avanzata e interessante per gli obiettivi della ricerca triennale messa in campo dall’Università Cattolica. Dati e percentuali ancora allo studio dopo le risposte al secondo questionario - somministrato nell’ottobre 2020 e a cui hanno risposto in 144 realtà - e che potrebbero evidenziare come la pandemia abbia influito sull’uso dei social nelle parrocchie e sulla capacità di sentirsi comunità e alimentare relazioni pur tra limitazioni e divieti. Tra le attività parrocchiali che più frequentemente vedono il ricorso all’uso dei social vi sono, secondo la ricerca, quelle educative, il Consiglio pastorale e le attività in ambito caritativo.
L’obiettivo dei ricercatori dell’ateneo cattolico punta adesso allo studio delle cosiddette «buone pratiche», cioè quelle realtà parrocchiali nelle quali l’uso dei social è uno strumento per fare pastorale senza abbandonare l’attività in presenza. Insomma «buone pratiche» che evidenzino esempi di «uso composito» di strumenti nella pastorale.