sabato 20 febbraio 2021
Perché bisogna guardare alla storia
Il seme gettato innanzi aprirà un tempo di più larga maturità
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Caro direttore,
diversi, recenti articoli di questo e di altri giornali (cartacei e digitali) tornano sulla vicenda della comunità di Bose, in modo appassionato. Credo che sia il momento di chiedere alla storia i sussidi che il tempo presente non offre.

Occorre pensare che i grandi movimenti radicali nella Chiesa hanno avuto un séguito immediato assai tumultuoso: basti richiamarci al primo secolo dei francescani: spirituali, conventuali, fraticelli; un tal fiorire di Vite di Francesco che dopo neanche due generazioni san Bonaventura ebbe a doverle ricondurre a una sorta di "vulgata" compendiata nella Legenda maior e nella Legenda minor di san Francesco. La pluralità, se anche deriva in più rivoli, è un segno indubbio di fecondità.
La comunità di Bose ha nel tempo interpretato, con fedele larghezza, il significato di "apostolo": inviato; sono nate le fraternità di Ostuni, Cellole di San Gimignano, Assisi, Civitella; in questo continuando quella larga diaspora che è il segno primo delle origini cristiane: da Gerusalemme a Corinto, a Antiochia, a Efeso, a Roma.

Si tratta ora di assumere la prova come una nuova, profetica, missione: un rinnovato, plurale, generoso, invio di esodo e promessa, che non riguardi uno opposto agli altri, ma tutti, tutti inviati. Il numero degli apostoli fu dodici, memoria simbolica delle tribù di Israele; ma fu anche numero di grande saggezza: quando una comunità diventa troppo numerosa, il numero non è forza ma debolezza: le regole e le discipline crescono, le necessità per "far funzionare" si moltiplicano, le gerarchie inevitabilmente si formano.

La crisalide protegge, ma se non si rompe la farfalla non alzerà mai le ali; forse il tempo è venuto, anche per Bose, di una maturità più larga: nel seguire, ancor più decisamente, quello che ha già prodotto nel tempo, una nuova diaspora là ubi vult spirat. Il seme è sempre "gettato innanzi", diceva Johann Peter Hebel. La "serra di Ivrea" è pur sempre una serra: e "disserrare", come dice Dante, è uno sprigionarsi abbagliante: «Come foco di nube si diserra» (Par., XXIII, 40).

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