L’ordinazione di alcuni sacerdoti nella Basilica di San Pietro (Siciliani)
Eccoli, il prete, il religioso e la religiosa del ventunesimo secolo. Solidi, ma anche flessibili; fermi nelle certezze della fede, ma capaci di adattarle pastoralmente alle provocazioni dei tempi, all’incontro con persone tutte diverse. Solidi e fermi ma anche pronti e reattivi a cambiare quando il cambiamento bussa, quando un dubbio attraversa la vita, quando l’organizzazione si rivela vecchia e incapace di incontrare la gente e dare risposte adeguate alle loro domande e alle provocazioni dei tempi. Solidi e fermi ma non disarmati quando dubbio e cambiamento affiorano dalla loro anima, dopo essere rimasti a lungo silenti, ed esigono spazio. Capaci di cambiare, anche in modo radicale e veloce. Sempre restando solidi e fermi, punti di riferimento per la comunità.
Esistono? Forse qualcuno, qua e là, sì. Ma per ora questo rimane un obiettivo, ben chiaro a molti, forse, ma non a tutti, e che solo qualcuno sta concretamente cercando di perseguire. Eppure i segnali che qualcosa, anzi molto andrebbe modificato sono innumerevoli e parlano chiaro. I casi di preti e religiosi che letteralmente “scoppiano” – il burnout, termine intraducibile: letteralmente significa “bruciarsi” e indica la micidiale miscela di stress ed esaurimento emotivo che prosciuga le forze di un individuo e lo mette ko – sono sempre più numerosi. Molti abbandonano, altri restano ma irrimediabilmente feriti dal ricorso smodato all’alcol, usato come “anestetico dell’anima”. Altri, una minoranza destinata però a una forte visibilità mediatica, pre- cipita in pratiche sessuali estreme o patologiche, perfino commettendo reati.
È questo il clero di cui padre Giuseppe Crea, comboniano e psicologo, e il pastore Leslie Francis, anglicano e psicoterapeuta, parleranno a Washington alla Convention dell’Apa (American Psychological Association). Crea, in particolare, tra il 2013 e il 2017 ha potuto studiare da vicino 450 casi. Con quali conclusioni? «Siamo una Chiesa tendenzialmente epimeteica». Pausa. Epimeteo, chi era costui? Fratello del più noto Prometeo e marito della più nota Pandora, nel mito non fa una gran figura. Se Pro-meteo è “colui che pensa prima”, Epi-meteo invece “pensa in ritardo” ed epimeteico è sinonimo di ottuso, poco sveglio. Un giudizio severo… «Una Chiesa epimeteica è forte nell’aspetto ammini-strativo, basata sui doveri, ma anche poco creativa; incline al cambiamento soltanto quando vi è costretta e non può farne a meno; e, in ogni caso, sempre per lenta evoluzione e mai per rapida rivoluzione».
Così, in genere, la Chiesa tende a formare il suo personale. Vengono vagliate le motivazioni esterne e tutti, chi più chi meno, dicono: voglio diventare prete, religioso o religiosa “per essere santo”, ossia vicino a Cristo, suo collaboratore stretto. «È una risposta – spiega padre Crea – che collima con le richieste dell’istituzione. Purtroppo assai raramente vengono indagate le motivazioni subconsce. Ad esempio, spesso il futuro presbitero cerca una comunità-mamma, a cui affidarsi e in cui trovare solidità e sicurezza». Ma la vita, prima o poi, ci costringe a fare i conti con una crisi, di qualunque genere. Il dubbio attraverserà la nostra strada. Che cosa ne sarà, allora, della nostra fede? Sapremo affrontare il dubbio, conviverci, senza perderne il nocciolo della fede? Sapremo essere, per fare due esempi assai lontani tra loro, come don Milani e Madre Teresa, travolti dal dubbio ma anche abitati da forti certezze, e quindi capaci di andare oltre il dubbio?
Il dubbio, se vissuto positivamente, è una provocazione per poter dare risposte autentiche alla propria vocazione. «Una sorta di appello vocazionale», spiega Crea. E gli eventi tragici hanno sempre una valenza educativa nella vita di chiunque. La domanda da porci è: che cosa vuol dirci il Padre Eterno attraverso questi dolori? «L’istituzione – ammette Crea – ha bisogno di gente sicura. Organizzata. Perseverante. Finché è possibile vivere degli insegnamenti ricevuti in tal senso, tutto bene. Ma che cosa accade quando la vita ti fa incontrare qualcosa di inaspettato e imprevisto? Che fine fanno le certezze?». Ecco perché papa Francesco, aggiunge Crea, insiste tanto con quel suo “Uscite!”. Ci dice: non abbiate paura degli imprevisti. È questo l’antidoto a una malattia tenace del presbitero, il clericalismo, forma di narcisismo accentratore che, per dirla alla veneziana, spinge al faxo tuto mi. E ancora: un’istituzione centrata su sicurezza e organizzazione è in grado di accogliere i bisogni più profondi, spesso inespressi (e che quando emergono creano sconquassi) di seminaristi e novizi, o i formatori ne hanno paura?
Secondo la teoria dei tipi psicologici di Carlo Gustav Jung, in prevalenza i preti del terzo millennio – in Italia come in Nord America e nel Regno Unito – sono centrati su sentimento e giudizio. In sintesi, scrive Crea nel suo Tonache ferite, le indagini «mettono in evidenza un profilo di ministro abitudinario e paziente nei ritmi, capace di affrontare le situazioni pastorali con impegno e secondo modalità già apprese». Vive un senso di sicurezza. «Tale spirito metodico però potrebbe mettere in secondo piano la capacità di rinnovamento e cambiamento, poiché potrebbe non accorgersi delle novità che emergono o delle cose nuove da fare, essendo abituato a privilegiare ciò che è già definito». In estrema sintesi: un clero affidabile ma poco flessibile, assai poco incline a mettersi in discussione. Ecco spiegati quell’epimeteico. E la domanda che da Washington rimbalza fino a noi: è questo il clero che vogliamo? O meglio: è questo il clero di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno nel ventunesimo secolo?