sabato 7 settembre 2024
Oggi il fondatore della "Papa Giovanni XXIII" avrebbe compiuto 99 anni: al via le celebrazioni del centenario che culmineranno a settembre 2025. La postulatrice: "Il suo messaggio sempre più attuale"
L'incontro tra don Benzi e un black bloc al G8 di Genova del 2001

L'incontro tra don Benzi e un black bloc al G8 di Genova del 2001 - Foto Viviana Viali

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Più che il mare di testimonianze e aneddoti, è una foto a spennellare il ritratto più vivo di don Oreste Benzi, sacerdote riminese oggi servo di Dio, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII: è il 2001 e don Oreste, una mano sul cuore, parla guardando il suo interlocutore, un black bloc mascherato di nero al G8 di Genova, testa e corpo coperti, persino gli occhi nascosti dietro lenti scure. Tutto intorno è esplosa la violenza, quella che doveva essere solo una marea di pace e di istanze democratiche si è trasformata in guerriglia, ma don Benzi disarma e coinvolge quel fratello deviato con la sua fiducia nel bene, “nessun uomo è il suo errore”, nessuno nasce sbagliato. Soprattutto nessuno va lasciato indietro. Non sappiamo nulla di quell’uomo, ma non è impossibile che la sua vita poi sia cambiata: succedeva spesso a chi incontrava don Oreste, nato 99 anni fa proprio oggi.
Si apre dunque in questi giorni l’anno del centenario, che culminerà il 7 settembre del 2025, mentre procede la causa di beatificazione, cui da anni lavora la postulatrice Elisabetta Casadei, docente di Filosofia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e all’Istituto di Scienze religiose di Rimini: “In questi anni sono stati ascoltati 131 testimoni e sono stati esaminati tutti gli scritti inediti di don Oreste – racconta –, arrivando così a raccogliere 18mila pagine rilegate in 56 volumi. Una documentazione gigantesca, che confluirà ora nella positio da cui la Chiesa si pronuncerà sulla sua venerabilità”.

La Comunità Papa Giovanni XXIII oggi è presente in tutto il mondo e la scomparsa nel 2007 del fondatore non ha scalfito il carisma originario. Qual è l’attualità del suo messaggio?
Prima di tutto l’attualità di don Oreste non è quella di essere un benefattore dei poveri e di prendersi cura di chi non ce la fa, questa è una visione molto riduttiva ed è solo la punta visibile dell’iceberg. Don Oreste era un visionario, nel senso che aveva una visione certa del mondo: la vera novità è di aver messo al centro la relazione, ed è anche il motivo della sua attualità. In questo mondo sfilacciato, in cui imperano solitudine e contrapposizione, lui cosa ci dice? Che tutti ci apparteniamo. La casa famiglia – una delle sue intuizioni più profetiche e geniali – è nata proprio così, a chi non aveva una famiglia sono state date delle relazioni, così la persona si è “sentita esistere”, perché si esiste sempre per qualcun altro… Don Oreste diceva “se vuoi uccidere una persona c’è un modo molto efficace, falla sentire inutile”. Al contrario, allora, se vuoi salvare la persona più irrecuperabile metti la tua vita con la sua vita, come oggi accade nelle centinaia di case famiglia, scuole del gratuito, comunità terapeutiche, cooperative sociali, insomma in quelli che lui chiamava “nuovi mondi vitali”.

La 'condivisione diretta' è il fulcro delle centinaia di realtà fondate dal sacerdote riminese

La "condivisione diretta" è il fulcro delle centinaia di realtà fondate dal sacerdote riminese - Comunità Papa Giovanni XXIII

In tutte le realtà che ha fondato si compiono ogni giorno miracoli di rinascita: il metodo funziona. Su cosa si fonda?
Il fulcro è la “condivisione diretta”, vuol dire se sei in un luogo di guerra vengo a vivere con te lì, se sei una prostituta ti porto a casa mia o vengo io sulla strada accanto a te, se sei nomade ti chiedo di accogliermi con la mia roulotte nel tuo campo. Non sono più due vite separate, non c’è l’assistenza, non la solidarietà mia verso te che sei un derelitto, ma la condivisione di tutto, fisica, quotidiana, reciproca. Alla base di questa rivoluzione c’è l’intuizione che i “piccoli” – cioè coloro che ai nostri occhi sono gli assistiti – in realtà sviluppano negli altri un potenziale di umanità che ci aiuta a riscoprire la nostra vera vita.

I “piccoli” come moltiplicatori di umanità, insomma? Sono loro a guarire i “grandi”?
In tutte le comunità di recupero di don Benzi, dove ci sono ad esempio i tossicodipendenti o gli ergastolani con pena alternativa al carcere, ci sono sempre anche disabili e anziani, a fare che? Sono loro i migliori operatori, quelli davanti ai quali chiunque smette di mentire, mentre li lava o li imbocca si toglie la maschera e ritrova se stesso, perché non ti chiedono cos’hai fatto e non ti giudicano, ti prendono per quello che sei. Parlo spesso con i carcerati, gente che ha ucciso e spacciato, e mi dicono “quello che mi ha fatto cambiare è stare accanto a Marino, a Valerio, a Francesca”, i bastonati dalla vita, quelli che ti fanno riscoprire l’essenziale. Che tu sia un ergastolano o un santo, per loro siamo tutti ugualmente preziosi. Quando papa Francesco dice che i poveri ci evangelizzano vuol dire questo.

Un giovane don Benzi con i suoi disabili in piazza San Pietro

Un giovane don Benzi con i suoi disabili in piazza San Pietro - Comunità Papa Giovanni XXIII

Don Benzi distingueva nettamente il bene dal male, ma non giudicava la persona.
Mai. Nessun essere umano è ladro o assassino, diceva, semmai è un uomo che ha rubato o ucciso. Guai giudicare, “l’altro guarirà non perché gli hai detto il suo errore, ma perché mentre parlavi ha sentito il tuo amore e gli è venuta nostalgia anche a lui di amare”, spiegava. Poi però sul peccato restava severo. Anche riguardo al tema dell’omosessualità, erano gli anni ’80-’90 quando ancora era considerata una malattia, eppure ho trovato alcuni suoi scritti splendidi, “tu che sei un uomo omosessuale, tu che sei una ragazza lesbica, hai una missione splendida da compiere, devi tirar fuori i doni che Dio ti ha dato in quanto persona”. Poi restava fermo sull’astinenza, niente rapporti gay.

Figlio innamorato della Chiesa, era anche molto laico.
Era un uomo di frontiera, della strada, sicuramente non delle sacrestie e delle curie. Era molto laico perché diceva “io metto la mia spalla sotto la croce di mio fratello, però intanto ho il dovere di denunciare l’ingiustizia di chi fabbrica quelle croci”, cioè devo rimuovere le cause, i soprusi, le violenze. Don Oreste che tra bombe carta e fumogeni va a dialogare con il black bloc la dice lunga.

Il rischio è di vederlo come prete “buono” e un po’ naïf, mentre era tutt’altro.
Lui incarna davvero il brano evangelico “prudenti come serpenti, semplici come colombe”, sapeva ben unire i due opposti: prudente per spiccata intelligenza e profonda cultura, aveva però una fiducia così totale nel bene e in Dio che si esponeva, non aveva mai paura per se stesso. Anche di fronte ai potenti della terra non provava timidezza, dibatteva, denunciava, chiamava le cose con il loro nome. Lo ricordo a Porta a Porta o al Costanzo Show chiamare l’aborto omicidio, le prostitute schiave, i loro clienti trafficanti. Scuoteva le coscienze con una naturalezza che spiazzava, ad esempio quando in un dibattito televisivo chiese che differenza ci fosse tra i terroristi che l’11 settembre uccisero duemila persone e i 9 milioni di italiani che sui marciapiedi fanno stupro di massa di quelle che lui chiamava “sorelline”. Il giorno del suo funerale nel 2007 a Rimini, di fronte a una folla gigantesca di “piccoli” dalle facce segnate, all’uscita della bara si alzò un grande cartello con su scritto “santo subito” e sa chi lo reggeva? Un nugolo di ex prostitute. Fece epoca Anna, la ragazza nigeriana che nel 2000 in occasione del Giubileo aveva portato con sé davanti a papa Wojtyla. Non s’era mai visto!

Attualissima anche la sua visione economica.
Questa a mio avviso è al centro della sua profezia. Già nel 1985, fondando la “società del gratuito”, prevedeva ciò che noi riusciamo a capire solo oggi con il pontificato di Francesco. Nella società del profitto, dove l’uomo investe i suoi soldi e le sue energie per aumentarne il potere, l’altro sarà sempre un avversario, qualcuno da sfruttare perché mi è vantaggioso, o invece da scartare perché non mi serve, mi è inutile. È chiaro che in un mondo così concepito la guerra non è un incidente di percorso ma è strutturale, i focolai sono ovunque, nella disoccupazione, nei figli senza famiglia, nei popoli sfruttati… La guerra – scrive – è come un organismo che ha contratto una malattia autoimmune, per cui le cellule non si riconoscono più appartenenti a uno stesso corpo, abbiamo perso cioè la visione della fraternità. A questa società del profitto oppone allora la società del gratuito, che è il mondo capovolto: il fondamento non è più investire per aumentare, ma per costruire qualcosa che è utile a tutti e ottenere una retribuzione secondo il bisogno. Nelle centinaia di “nuovi mondi vitali” da lui fondati questo funziona tutti i giorni, le persone che lavorano mettono in comune le risorse e le competenze, integrano gli svantaggiati e tutti prendono lo stesso stipendio. Il denaro conserva il suo valore, ma non è più il fine, e il bene privato lo trovi di riflesso, attraverso il bene comune.

Una visione così evangelica che… anche noi cristiani fatichiamo a praticarla.
Nelle Settimane sociali dei cattolici del 2007 a Pisa, pochi giorni prima di morire, parlando a braccio don Oreste chiese chi fosse il vero nemico del bene comune. E si rispose da solo: siamo noi cristiani, che non riusciamo più a sentire il grido di chi soffre. “Perché non apriamo loro le nostre case? Perché abbiamo perso la coscienza di essere un unico popolo che ha una missione da compiere nella storia”.

L'abbraccio universale di don Oreste, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII

L'abbraccio universale di don Oreste, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII - Apg23

Per il centenario lei sta raccogliendo un libro di suoi aforismi e un secondo corposo volume che ricostruirà il cammino spirituale di don Oreste. Che cosa l’ha colpita di più?
La forza della preghiera, era il nerbo che teneva in piedi la sua vita. Dormiva pochi minuti e poi ripartiva, giorno e notte andava a cercare chi dormiva per strada e i disperati, non aspettava che loro cercassero lui. Dopo mezzanotte al sabato incontrava i giovani nella Scuola di preghiera, o andava nelle discoteche a parlare con loro, “per stare in piedi, devi saper stare in ginocchio”, sosteneva. E poi mi commuove il fatto che la sua empatia per quelli che “non contano” gli derivasse dal primo “piccolo” incontrato nella vita, suo papà, un uomo povero e dignitoso, talmente umile che chiedeva quasi scusa di esistere. Ecco, quando andava sulle panchine a cercare gli scartati lui vedeva suo padre. In lui scattava un’esigenza di non lasciare nessuno soffrire da solo e di non farlo mai sentire inferiore. A questo proposito c’è un toccante episodio accaduto negli anni ’50 all’inizio del suo ministero, ma che non dimenticò mai: un giovane papà disoccupato, pescatore riminese, si rivolse a lui e don Benzi lo portò con sé a Roma da un senatore per chiedere aiuto. Nel suo ufficio parlarono ovviamente in italiano, ma il pescatore sapeva solo il dialetto e quando don Oreste tornando a casa gli chiese se avesse ben compreso la risposta del senatore, il giovane replicò “io non ho capito niente perché voi parlavate maiuscolo”. Don Benzi scrive che quella frase lo aveva schiantato, senza volere si era messo sullo scalino superiore, quello del benefattore che fa il bene dell’altro, lo aveva fatto sentire fuori posto proprio come un tempo capitava a suo papà di fronte ai ricchi.

'Non lasciare nessuno soffrire da solo': don Oreste la notte alla ricerca dei 'bastonati dalla vita'

"Non lasciare nessuno soffrire da solo": don Oreste la notte alla ricerca dei "bastonati dalla vita" - Comunità Papa Giovanni XXIII

Lei lo ha conosciuto da ragazzina. Ha un ricordo che la riguarda personalmente?
Deve sapere che don Oreste incoraggiava tutti i giovani a studiare ogni materia, giurisprudenza, psicologia, filosofia, sociologia, tutto. Ma non teologia: lo impediva proprio, diceva che nelle università pontificie era insegnata in modo astratto, non a partire dalla vita. Io non lo sapevo e a 21 anni andai a dirgli che mi sarei iscritta a teologia e sarei partita per Roma. Abbassò gli occhi sulla scrivania, restò muto a lungo, poi mormorò solo “non dimenticarti dei poveri, però”. Fui l’unico caso in cui non si oppose… Se non avessi studiato teologia oggi non potrei fare la sua postulatrice. Fu profetico anche in questo, a sua insaputa!

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