È stato il Papa della misericordia, «non è un rigorista morale». Lo scrive di san Giovanni Paolo II il papa emerito Benedetto XVI in una lettera inviata al cardinale Stanislaw Dziwisz, già arcivescovo di Cracovia e segretario particolare di papa Wojtyla, diffusa dalla Conferenza episcopale polacca alla vigilia del centenario della nascita del Pontefice nato a Wadowice il 18 maggio 1920. Il «centro giusto dal quale leggere il messaggio contenuto» nel magistero di papa Wojtyla, scrive Benedetto, si è rivelato «nell’ora della sua morte», cioè «nelle prime ore della Festa della Divina Misericordia istituita da lui stesso» non senza incontrare la resistenza della stessa Congregazione per la Dottrina della fede, guidata dall’allora cardinale Ratzinger. Ispirato dal messaggio di suor Faustina Kowalska, che «aveva presentato la misericordia di Dio come il centro essenziale di tutta la fede cristiana», Giovanni Paolo II – com’è noto – «volle istituire la festa della Divina Misericordia» individuando «la Domenica in albis». Ma il parere chiesto al dicastero guidato da Ratzinger fu negativo nella convinzione che la Domenica dopo Pasqua – rivela il Pontefice emerito – «non dovesse essere appesantita da nuove idee». Una risposta che Giovanni Paolo II accettò «con tutta umiltà», formulando poi «una proposta che pur lasciando alla Domenica in albis il suo significato storico, gli permise di introdurre la misericordia di Dio nella sua accezione originale». Cioè che «grazie a Cristo risorto, la misericordia di Dio è per tutti» perché «tutti devono sapere che la misericordia di Dio alla fine si rivelerà più forte della nostra debolezza». È qui che risalta «l’unità interiore del messaggio di Giovanni Paolo II e le intenzioni fondamentali di papa Francesco». Lungi dunque dall’essere «un rigorista della morale», papa Wojtyla «ci dà l’opportunità di accettare le esigenze morali poste all’uomo, benché non potremo mai soddisfarle pienamente. I nostri sforzi morali vengono intrapresi sotto la luce della misericordia di Dio, che si rivela essere una forza che guarisce la nostra debolezza». Eccoci dunque al cuore di un pontificato che iniziò «in una situazione drammatica» per la Chiesa, provata da un confronto sulle deliberazioni del Concilio «presentate in pubblico come una disputa sulla fede stessa, che sembrava così priva del suo carattere di certezza infallibile e inviolabile». Di fronte a ciò, Wojtyla ebbe «la capacità di suscitare una rinovata ammirazione per Cristo e la sua Chiesa»: «Il fattore decisivo – nota Benedetto – non fu quello di dubitare di tutto, ma di rinnovare tutto con gioia».
Un altro tema nel quale entra Ratzinger ricordando il Pontefice del quale fu stretto collaboratore è la definizione di «magno» che «non solo in piazza San Pietro» dopo la sua morte «ma in vari circoli di intellettuali» si è pensato fosse adeguata al Pontefice canonizzato da papa Francesco il 27 aprile 2014. Attribuito finora solo a due Papi – Leone I (440-461) che fermò gli Unni, e Gregorio I (590-604), che fece altrettanto con i Longobardi –, l’appellativo «ha un’impronta politica» nel senso che in san Giovanni Paolo II «il potere della fede si rivelò una forza che, alla fine del 1989, sconvolse il sistema del potere sovietico e permise un nuovo inizio». Il fatto che questo aggettivo «sarà acettato o meno – conclude Benedetto – deve essere lasciata aperta» perché «in Giovanni Paolo II la potenza e la bontà di Dio è diventata visibile a tutti noi». E «in un momento in cui la Chiesa soffre di nuovo per l’assalto del male, egli è per noi un segno di speranza e di conforto. Caro san Giovanni Paolo II, prega per noi!».
In una lettera al cardinale Dziwisz per i 100 anni dalla nascita di Karol Wojtyla, diffusa dall'episcopato polacco, il Papa emerito riflette sulla caratteristica centrale di quel lungo pontificato.
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