«Leggendo la
Evangelii gaudium tutti i membri della Chiesa – davvero tutti – possono coglierne i risvolti operativi. Le parole entrano direttamente nel cuore sin dalla prima lettura, senza bisogno di mediazioni interpretative». Monsignor Lorenzo Baldisseri, dal 21 settembre segretario generale del Sinodo dei vescovi, introducendoci nell’Esortazione di papa Francesco ne evidenzia i tratti salienti per poi soffermarsi sulla sinodalità e il ruolo delle Conferenze episcopali tra decentralizzazione e collegialità.
Monsignor Baldisseri, quale impressione lascia una lettura approfondita della Evangelii gaudium?L’Esortazione lancia una luce immensa sulla Chiesa e sull’umanità, fa sentire tutta la fragranza della Parola annunciata che illumina, indica, suggerisce, apre.
Qual è il tratto più caratterizzante del testo papale? L’annuncio gioioso della fede, come elemento dominante e caratterizzante. Il Vangelo è
alegrìa evangelizadora, come papa Francesco ripete tante volte (ben 59) nell’Esortazione, citando Paolo VI. L’ultimo documento pontificio che aveva nel titolo il riferimento alla gioia fu l’esortazione apostolica
Gaudete in Domino, pubblicata da Paolo VI durante l’Anno Santo del 1975.
Non si può dire certo che la gioia sia assente dai documenti del magistero...Ma qui la gioia del Vangelo non viene solo descritta, o richiamata. Se la Chiesa ha come ragione propria del suo esistere l’annuncio e il comunicare la gioia di Cristo, che dà senso e assicura la vita e la felicità delle persone – ci dice il Papa – questo fatto diventa sorgente e criterio di adeguati e concreti mezzi operativi nella prassi ecclesiale, che possono e devono procurare cambiamenti anche in certe strutture. Il criterio per cambiare la Chiesa non è applicare concezioni ideologiche, ma partire dalla sua natura propria e dall’agire che più le conviene per conseguire lo scopo, far giungere il Messaggio. Fa parte della natura della Chiesa uscire da se stessa, non essere ripiegata ma de-centrata da sé. E quando segue Cristo la Chiesa non si ripiega, come la donna curva del Vangelo. Solo in questa dinamica di «uscita da sé» risplende la sua bellezza.
Quali novità trova nell’Esortazione? I riferimenti biblici e dottrinali sono quelli della grande tradizione della Chiesa. Si citano, tra gli altri, sant’Ireneo, sant’Agostino, san Tommaso, e numerosi testi magisteriali fino al Vaticano II e agli ultimi Papi... La novità è nello sguardo, e diventa anche novità di linguaggio. Il testo ha una concretezza e un realismo unici, contiene criteri che possono essere immediatamente applicati a tante questioni reali, su tutti i livelli. Leggendo
Evangelii gaudium tutti i membri della Chiesa – davvero tutti – possono coglierne i risvolti operativi. Le parole entrano direttamente nel cuore sin dalla prima lettura, senza bisogno di mediazioni interpretative. È davvero un documento programmatico che abbraccia vasti orizzonti. Anche per questo ha perduto la qualifica di Esortazione «post-sinodale», troppo ristretta per un testo con questo respiro.
Il Papa invita la Chiesa a porsi «in stato di missione». Cosa vuol dire?Il dinamismo vitale, il «bioritmo» proprio della Chiesa, è quello missionario. La missione non è più una faccenda da missionari ma ci riguarda tutti. In un certo senso, è finito un modo di intendere la missione come «missio ad gentes», una concezione dietro la quale c’era l’idea che in alcune aree del mondo la Chiesa rappresentasse quasi una entità pre-costituita, mentre in altre – le «terre di missione» – entrava come un germoglio nuovo, bisognoso di strategie e strumenti giuridici particolari. Invece oggi tanti neppure conoscono il Vangelo anche se vivono in Paesi di millenaria tradizione cristiana.
Come valuta i passaggi sul rapporto tra Vangelo e culture?Sono stato nelle nunziature apostoliche per 39 anni, di cui 20 come nunzio e 36 fuori dall’Europa, e quando tornavo in Italia spesso avevo l’impressione che il rapporto con la nostra eredità culturale, invece di essere un aiuto, poteva trasformarsi in un impaccio per lo slancio missionario. Papa Francesco ripete che nessuna cultura può essere considerata come uno strumento esclusivo per trasmettere la fede. I vescovi dell’Oceania, citati nell’Esortazione, hanno scritto: «Vorremmo una comprensione e una presentazione della verità di Cristo partendo dalle culture della nostra regione». Certo, si tratta di un lavoro enorme, ma sono questioni che adesso non possono più essere evase.
Papa Francesco ha chiesto di verificare come le Conferenze episcopali possano avere attribuzioni concrete, includendo «qualche autentica autorità dottrinale». Cosa vuol dire? Il Santo Padre invita ad approfondire l’argomento per trovare vie nuove. Il riferimento all’autorità dottrinale non va interpretato come autonomia di esercizio indipendente sulle questioni dottrinali. Le Conferenze episcopali non sono istituzioni di diritto divino: solo il Papa e i vescovi, come successori degli Apostoli, lo sono, e costituiscono insieme il Collegio episcopale. Tuttavia le Conferenze episcopali non sono istituzioni meramente burocratiche. Papa Francesco evoca l’esperienza delle antiche Chiese patriarcali, la loro sinodalità. La Conferenza episcopale quindi non può essere al di sopra del singolo vescovo, è un organismo di comunione ecclesiale e di coordinamento, che può assumere un’autorità dottrinale, allorquando resta in comunione con le altre Chiese locali e il Papa. In questa dimensione essa partecipa al magistero ordinario, tanto quanto il singolo vescovo. Il fatto che il Papa abbia citato varie volte documenti di episcopati o di conferenze episcopali indica che si riconosce loro una «autentica autorità dottrinale», che si misura sempre con il
sensus fidei dei fedeli e con il
consensus Ecclesiae, e ciò non ha a che vedere con iniziative provocatorie, compiute in maniera isolata, con cui talvolta alcuni vescovi singolarmente o in gruppo possono lacerare la comunione ecclesiale.
Conferenze episcopali e altri organismi come possono favorire decentralizzazione e collegialità?Papa Francesco sta dando una sua impronta ai processi decisionali nella Chiesa. Coinvolge tutti – episcopati e gruppi di cardinali, vescovi, religiosi – in un confronto aperto sulle questioni. Poi sarà sempre lui a prendere le decisioni, con scelte proprie in cui si vede il proprio convincimento pur maturato con l’apporto del discernimento collegiale. Così sta funzionando anche la consultazione in vista dei Sinodi sulla famiglia. Non si tratta di un sondaggio d’opinione o un referendum, né l’applicazione di metodi democratici alla vita interna della Chiesa. È un’inchiesta che deve dare risposte meditate e propositive. Si guarda in questo anche all’esperienza delle Chiese orientali.
Infatti il Papa ha suggerito di guardare agli ortodossi anche per la pratica della collegialità...Sì è vero. Le strutture di comunione da loro utilizzate sono antiche. Il fattore che garantisce tutto, a partire dal funzionamento, è la condivisione della stessa fede apostolica e la tradizione della Chiesa al di là di aspetti o sensibilità ecclesiali dovuti alla cultura di ciascun popolo evangelizzato. Il Sinodo dei vescovi o le Conferenze episcopali interagiscono in questo sempre e sono organismi che possono aiutare a consolidare la comunione. Esse devono studiare ancor più le culture e i contesti sociali della propria nazione e del proprio popolo affinché il Vangelo entri nel cuore della gente e diventi proprio. Il primo millennio fu un’epoca storica interessante in questo senso e dovremmo rivisitarlo per trarne insegnamenti, idee e indicazioni preziose per l’evangelizzazione di oggi.
Pensa a un Sinodo deliberativo, che prende decisioni pastorali concrete?Si tratta di una possibilità prevista anche dal Codice di diritto canonico, ma finora, a cinquant’anni dall’istituzione, non ci sono stati tentativi concreti di applicare fino a questo punto il principio della sinodalità. Il Concilio aveva chiesto di istituire il Sinodo: c’era l’intuizione, ma mancava l’esperienza. Il Sinodo dei vescovi come lo vediamo oggi è venuto fuori senza parametri o modelli di riferimento. I vescovi orientali, come il patriarca melkita Maximos IV, fecero interventi forti anche in virtù della loro esperienza, ma del Sinodo in Occidente non c’era la tradizione se non a livello diocesano e provinciale. Oggi, a cinquant’ anni dal Concilio, abbiamo maturato una certa esperienza, e puntiamo ad andare avanti, perché così com’è l’istituto del Sinodo appare insufficiente.
Anche il Papa ha partecipato ai vostri lavori di preparazione del prossimo Sinodo sulla famiglia...Il Papa è già venuto nel nostro ufficio due volte, ha preso posto tra di noi, ha ascoltato gli interventi, ha offerto alcuni suggerimenti metodologici di lavoro. E noi siamo andati avanti. Un vescovo mi ha detto: «In pochi giorni si è fatto quello che si fa in un anno e mezzo e più». Ma non è una questione di efficientismo: conta l’atteggiamento. È il segno di un altro passo, per cui anche un ufficio «dipana-carte» può trasformarsi in un organismo vivo, attivo.