Giovanni Paolo II nella sua cappella privata, abbracciato al legno della Croce nel venerdì della Passione di Gesù durante la Via Crucis del Colosseo. Otto giorni dopo sarebbe morto - Ansa
Per una di quelle coincidenze che potremmo definire "parlanti", ieri il sedicesimo anniversario della morte di san Giovanni Paolo II è venuto a cadere nel giorno del Venerdì Santo. Tornano alla mente le immagini della sofferenza di papa Wojtyla nel tratto finale del suo pellegrinaggio terreno. E soprattutto quell’inquadratura televisiva che ce lo mostrò, nella sua cappella privata, abbracciato al legno della Croce nell’ultimo venerdì della Passione di Gesù (in pratica otto giorni prima di morire), durante la Via Crucis del Colosseo, cui non poté presenziare di persona. Se davvero esiste la categoria delle immagini che riassumono una vita, quella vi fa parte di diritto, anzi ne è in qualche modo il prototipo. Perché la croce ha "spogliato" prima l’uomo Karol Wojtyla, poi il pontefice Giovanni Paolo II di tutto ciò che aveva, dagli affetti alla prestanza fisica.
A vent’anni era già solo al mondo avendo perso la madre, un fratello amatissimo e il padre che era l’ultimo dei familiari rimastigli. Andando avanti negli anni, sperimentò sulla sua pelle gli orrori della Seconda guerra mondiale (fu anche a un passo dalla morte, investito da un camion militare tedesco sul ciglio della strada) e le angherie del regime comunista. E una volta eletto Pontefice subì il devastante attentato del 13 maggio 1981, dal quale si salvò – sono le sue stesse parole – perché «una mano materna aveva deviato il proiettile» a colpo sicuro di Ali Agcà.
L’annuncio del Vangelo, ci ha ricordato proprio giovedì papa Francesco, non si può mai disgiungere dalla sofferenza della Croce. San Giovanni Paolo II ne è stato l’emblema vivente, anche con i suoi ripetuti ricoveri (è il Papa che possiede il doloroso record dei giorni passati in ospedale, 164 suddivisi tra le sue 12 degenze, al punto che con la sua ben nota ironia aveva definito il Policlinico Gemelli «il Vaticano tre» – il «due» era Castel Gandolfo). Vennero poi l’insorgere del Parkinson e soprattutto gli ultimi cinque anni di Pontificato, che come qualcuno giustamente ha fatto notare egli trascorse sulla «cattedra del dolore». Per non parlare delle critiche, a volte anche aspre, che anche il suo magistero ricevette sui temi eticamente e socialmente sensibili. Persino dopo la morte e la proclamazione della sua santità, ambienti da sempre a lui ostili hanno tentato di crocifiggerlo nuovamente, rovesciando la prospettiva del caso McCarrick di cui fu vittima e non certamente colpevole, come è stato attestato inequivocabilmente dal rapporto della Santa Sede.
I vaticanisti Domenico Del Rio e Luigi Accattoli, in un libro a quattro mani, scrissero che papa Wojtyla era il «nuovo Mosè». A distanza di 16 anni dalla fine del suo pontificato, ferma restando la validità di quella intuizione, viene spontaneo anche il paragone con un altro personaggio biblico, Giobbe e le sue sofferenze. La Croce, appunto, accettata sempre con la pazienza del servo fedele. Ma poiché come direbbe don Tonino Bello, la Croce stessa è «una collocazione provvisoria», in questo Sabato Santo in cui la Chiesa medita nel silenzio con Maria e insieme con Lei (alla quale Giovanni Paolo II aveva consacrato tutto stesso) già assapora la certezza della Resurrezione, l’immagine del Papa abbracciato al legno salvifico di Gesù sfuma come in una dissolvenza incrociata, lasciando il posto alle belle parole con cui l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nell’omelia dei funerali, lo descrisse affacciato alla finestra del cielo. E ci piace dunque immaginarlo, ormai Santo, mentre indica come un viatico per il cammino che ancora ci attende il Vangelo sfogliato dal vento sulla sua bara. Immagine potentissima anche quella. E invito non più rimandabile a sfogliarlo davvero quel Vangelo. Con la nostra vita, soprattutto.