La regista Alice Rohrwacher con la madre e il cardinale Gianfranco Ravasi - Foto Muolo
Il paradiso perduto è per Alice Rohrwacher un’umanità che cammina a occhi chiusi, una comunità che ha smesso di essere tale per ridursi a somma di individui. Il paradiso perduto è, in sostanza, l’incapacità di guardare la creazione per quella che è: un paradiso già quaggiù, che il nostro egoismo sta trasformando in un inferno. La pluripremiata regista di film molto apprezzati dal pubblico e dalla critica, come ad esempio Corpo celeste, Lazzaro felice e La chimera, ha preso parte ieri sera, 27 febbraio, al quarto e ultimo incontro della Lectio Petri tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi nella Basilica Vaticana. Un ciclo di incontri organizzato dal Cortile dei Gentili e dalla Fondazione Fratelli Tutti, oltre che dalla stessa Basilica di San Pietro, con modalità multiculturale. Insieme a Rohrwacher, a illustrare il significato di due brani degli Atti degli Apostoli («erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli…» e la morte di Anania e Saffira) anche il grande violinista Uto Ughi, che ha suonato musiche di Veracini, Mozart, Gluck e Massenet, e la brava attrice Beatrice Fazi, che ha letto i brani della Scrittura. La serata è stata introdotta dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Vaticana.
Uto Ughi al violino durante la Lectio Petri nella Basilica Vaticana - Foto Muolo
Perché ha deciso di partire dalla Cacciata dal Paradiso terrestre di Masaccio, per sviluppare la sua riflessione su quei due brani degli Atti?
Mi sono ispirata all’affresco di Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze, perché l’artista la mette a cornice delle storie di Pietro. Questa immagine di Adamo ed Eva che con gli occhi chiusi che si allontanano dal giardino dell’Eden mi fa pensare infatti al paradiso terrestre che noi non riusciamo più a vedere. Anzi, spesso con le guerre, l’accumulo egoista di beni, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, le attività che innescano il cambiamento climatico lo stiamo trasformando in un inferno.
Sta parlando della Terra, ovviamente.
Certo. Perché, quando immagino di disegnare il paradiso, tutti gli elementi che mi vengono in mente sono quelli terrestri. Gli alberi, i fiori, la frutta, l’abbondanza. E allora penso: forse è la terra questo famoso paradiso. E noi siamo come Adamo ed Eva dipinti da Masaccio. Con gli occhi chiusi, ciechi. Vediamo solo i nostri drammi, la nostra individualità, ma non riusciamo più a cogliere qualcosa di più grande, cioè il paradiso che è già in terra. Anche i due brani degli Atti degli Apostoli ci richiamano a questa visione. Nel primo si parla di comunione. Ma quando come nell’episodio di Anania e Saffira la comunione si rompe per l’egoismo, il tesoro comune viene rotto da chi se ne appropria.
Quanto c’è di queste idee nel suo lavoro di regista?
In effetti questa riflessione laica mi ha guidato fin dall’inizio. Il mio primo film, Corpo celeste, è tratto da una riflessione di Anna Maria Ortese. Precisamente quando lei da bambina si rende conto che la Terra è già un corpo celeste, non troppo lontano dal sole e nemmeno troppo vicino, sospeso nel vuoto come dicono siano gli angeli.
In quel film c’è anche una critica a un certo momento di vivere la religione. Qual è il suo rapporto con la fede o per lo meno con la spiritualità?
Io non sono battezzata. E la mia maestra mi disse che non sarei potuta andare in paradiso. Quanto ho pianto da bambina per questo. Ma mia mia madre, per consolarmi, mi disse che non sarei andata neanche all'inferno, perché in quanto bambina non battezzata sarei finita nel limbo e me lo descrisse come un luogo bello. Crescendo, naturalmente, sono andata oltre queste cose. Ma mi è rimasto l’interesse per una spiritualità autentica, sganciata dal credere che diventa potere, forma di appartenenza politica. In Corpo celeste c’è ad esempio la denuncia di un catechismo che prende lo stereotipo del quiz televisivo per attualizzarsi, per essere più contemporaneo per i ragazzi. Ma in tutti i miei film c’è una riflessione spirituale.
In Lazzaro felice e La chimera, però, lo sguardo è diverso.
Sì, in effetti è così. Da un lato rappresento un ambiente in cui si è indirizzati a credere (la marchesa Alfonsina De Luna di Lazzaro felice tiene i contadini nell’ignoranza, leggendo ciò che lei decide di leggera dai Vangeli), dall’altro c’è un credere diverso, in cui ci si guarda negli occhi, un credere in cui le parole non ti portano a una sottomissione, ma a un’apertura, a una comunione, a una condivisione. La chimera racconta invece un momento in cui non c’è più niente di sacro e all’inizio degli anni ‘80 una banda di uomini di provincia inizia a rubare i tesori dalle tombe etrusche. Tesori che comunque rimandano alla spiritualità. E lo fanno perché non credono più in niente. Allo stesso modo Corpo celeste parla di un uomo di Chiesa, un parroco, che perde la fede e che quindi si trova solo a svolgere un lavoro. È anche un ritratto un po’ caricaturale, ma volevo raccontare questa realtà per metterla in discussione e farla diventare punto di incontro e di dialogo.
Come definirebbe dunque il suo cinema?
In tutti questi film mi sono sempre chiesta quand’è che abbiamo smesso di credere nell’invisibile, cioè in ciò che ci lega al di là di ciò che riusciamo a percepire. Detto in altri termini, quand’è che abbiamo smesso di essere una comunità e siamo diventati una somma di individui. Elsa Morante, nel finale della sua opera Il mondo salvato dai ragazzini scrive che “Ama il prossimo tuo come te stesso”, potrebbe essere interpretato anche come “Ama il prossimo tuo perché te stesso”. Se smarriamo questa dimensione cadiamo nella paura dell’altro e la paura è il modo in cui si canta nell’inferno.
Come tenere insieme, dunque, lo sguardo puntato verso l’alto, il paradiso diciamo, e i piedi piantati sulla Terra?
Come diceva Pavel Florenskij io voglio vedere l’anima, ma voglio vederla incarnata. L’alto e il basso. I simboli che incontro mentre faccio i miei film vengono sempre dal basso, nascono come fiori e poi si collegano a una realtà spirituale più alta, perché sono sempre legati alla terra. Il mio augurio è di aprire i nostri occhi e vedere il paradiso che già abbiamo intorno.
Alice Rohrwacher e Beatrice Fazi - Foto Muolo