Il Concilio Vaticano II fu aperto da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962 - Archivio
Il suo Concilio è iniziato due anni e mezzo prima, il 25 gennaio 1959. «Quel giorno, in San Paolo fuori le mura Giovanni XXIII annunciò tre iniziative grandi: la revisione del codice di diritto canonico, il primo Sinodo della diocesi di Roma e un Concilio generale». Gianni Gennari, 82 anni, teologo e giornalista, storica firma di Avvenire, sentì quelle parole stando a pochi passi dal Pontefice. «Come seminaristi eravamo stati inviati a fare i chierichetti alla Messa del Papa per l’insediamento del nuovo abate di San Paolo: fra’ Cesario D’Amato che era nostro professore di musica. Sempre come chierichetto, qualche mese prima, il 27 dicembre, avevo partecipato alla consacrazione episcopale di Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I».
Torniamo al giorno dell’annuncio.
Io con altri tre chierichetti stavo a due metri dal Papa, al suo fianco, davanti a 200 tra cardinali e vescovi. E vidi le loro facce sbalordite.
Uno stupore destinato a crescere. Di pari passi al cammino di preparazione del Concilio.
Il primo problema fu trasformare l’aula che doveva ospitarlo. Venne incaricata la ditta di falegnameria Pietrantoni e Ricci, in vicolo Sant’Onofrio di cui mio padre, che faceva l’ebanista, era capomastro. Fu lui a disegnare i banchi del Concilio. A guidarli era il cardinale Sergio Guerri, segretario dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica).
E poi venne l’11 ottobre 1962.
Fu uno spettacolo solennissimo con il lunghissimo corteo dei padri conciliari.
E la sera il discorso della luna.
Papa Giovanni era molto stanco, non aveva intenzione di affacciarsi. Ma don Loris Capovilla, il suo segretario lo stuzzicò nella curiosità: «Santità venga a vedere attraverso le tapparelle, la piazza è piena di gente». Il Papa si lasciò convincere, si mise la stola e fece tirare su le tapparelle
E disse quelle parole meravigliose.
Il fatto interessante è che quando rientrò, si tolse la stola e affermò: «Non sapevo proprio cosa dire, mi sono raccomandato alla mia Teresina».
Santa Teresa di Lisieux, cui era molto legato.
Certo. Lui tra l’altro aveva tenuto una conferenza al convegno teresiano di Parigi del 1947 in cui emerse come la dottrina della santa fosse molto più grande della cosiddetta infanzia spirituale.
Tornando al Discorso della luna, la gente era colpita dall’umanità del Pontefice.
Racconto un piccolo episodio. Qualche giorno dopo l’elezione, in via Fabio Massimo a Roma, si accosta al marciapiede una macchina nera da cui scende il Papa vestito di bianco. Andava a trovare monsignor Giulio Belvederi (fondatore della Comunità delle benedettine di Priscilla, ndr) ricoverato in ospedale lì vicino. La gente rimase sbalordita: un signore si levò il cappello che gli cascò a terra e si inginocchiò per riprenderlo. Il Papa gli fece un buffetto sulla guancia e gli rimise il cappello in testa.
Quell’11 ottobre iniziava una svolta grande per la Chiesa, partendo da parole semplici, quasi pronunciate cuore a cuore.
Ma, come tutti sanno, erano tempi molto duri. Quando Paolo VI nel 1965 parlò di Chiesa insieme santa e peccatrice, il rettore della Lateranense, Antonio Piolanti disse: «In hoc Papa sicut Luterus, hereticus» (»In questo il Papa è come Lutero, eretico»). Già prima avevano fatto la guerra a Montini, tanto che Pio XII non lo volle cardinale. “confinandolo” a Milano. Sarà poi Giovanni XXII a dargli la porpora.
Dicevamo che l’11 ottobre segnò l’avvio della grande svolta del Vaticano II.
In una lettera a monsignor Lefebvre, Paolo VI scrisse che il Concilio Vaticano II era importante almeno come quello di Nicea. E forse ancora di più.
Poi Lefebvre prese tutt’altra strada.
Certo. L’importanza del Vaticano II del resto è nelle svolte fondamentali che portò. La prima è verso i poveri, anticipando alcuni dei temi che oggi troviamo in papa Francesco. Il cardinale Lercaro arcivescovo di Bologna parlò spesso della povertà della Chiesa e poi partecipò al patto delle catacombe.
Si tratta, come tutti sanno, dell’intesa firmata da una quarantina di padri conciliari nelle catacombe di Domitilla impegnandosi a una vita di povertà e a una Chiesa «serva e povera».
Sono i principi che cerca di realizzare papa Francesco.
Altra svolta profonda è quella biblica, con la Bibbia in mano ai fedeli.
Prima non era per tutti. Consegnarla alla gente veniva considerato pericoloso. La stessa santa Teresina poteva leggere solo i passi della Bibbia copiati dalla superiora. Un’altra grande svolta è il passaggio della concezione della Chiesa da società perfetta a popolo di Dio, popolo di santi e di peccatori.
E poi la scelta del dialogo.
Prima vigeva il principio secondo cui la Chiesa si salva soltanto chiudendosi in sé stessa. Una tesi formalizzata per esempio dal cardinale Siri, ma si pensi anche alla accuse contro lo “scatafascio del Concilio” di monsignor Pier Carlo Landucci che era maestro di spiritualità della diocesi di Roma. Si condannava la prospettiva di una Chiesa che non si difende più ma si apre al mondo.
Piste nuove e tanti cammini rinnovati nel profondo.
Un’altra grande svolta riguarda la libertà di coscienza che Gregorio XVI nella “Mirari vos” aveva bocciato come “deliramentum” (“delirio”).
D’altronde ad annunciare l’avvio di una stagione di grandi cambiamenti era stato lo stesso Giovanni XXIII che nell’allocuzione di apertura del Concilio aveva detto che la Chiesa, nel correggere gli errori, anteponeva al rigore la medicina della misericordia.
Misericordia senza venir meno alla fedeltà alla dottrina. Il Papa sottolineava che non è la dottrina a cambiare ma siamo noi che capiamo sempre meglio il Vangelo.
Guardando alle similitudini con l’oggi, il Concilio, come noto, si apriva in una stagione segnata dalla crisi missilistica di Cuba.
E Giovanni XXIIII nella Pacem in terris disse che la guerra in era atomica era «fuori dalla ragione: aliena a ratione». Quando papa Francesco dice che la guerra è un pazzia, cita quell’enciclica.
Il Concilio, forza grande che ha smosso tante situazioni.
E che ancora deve muoverne. Si pensi che il progetto dello schema 13 , quello che poi ha dato origine alla Costituzione pastorale cominciava con le parole Angor et orror, cioè angoscia e paura che Paolo VI volle cambiare in Gaudium et spes, gioia e speranza. Esattamente il contrario.
Ma la più grande eredità del Concilio qual è?
La chiamata di tutti alla santità, la distruzione dei muri. Il sì totale detto in nome di Dio all’umanità, che è da redimere non da condannare o da “giudicare”. Anche in questo senso Francesco è il Papa più conciliare.
Siamo partiti da Gennari chierichetto, ma il vostro compito di seminaristi non si esaurì lì durante il Concilio.
Eravamo presenti ogni giorno: aiutavano i vescovi secondo le loro necessità. Inoltre abbiamo fatto da scrutatori alle elezioni delle Commissioni interne. Ricordo un giorno il cardinale Joseph Frings arrivare accompagnato da un giovanotto biondo, Joseph Ratzinger, che aveva già la fama di rinomato progressista.
Ma in che cosa l’applicazione del Concilio è maggiormente in ritardo?
Direi che l’educazione nei Seminari ha segnato il passo per cui si sono svuotati con la figura del prete diventata evanescente. Ecco perché la scelta dei poveri fatta da papa Francesco e le immagini di Chiesa in uscita o come ospedale da campo sono molto importanti. Se un presbitero non testimonia una presenza che va nel profondo della vita riuscendo a dare insieme gioia e speranza, si riduce ad amministratore di cerimonie o, peggio ancora, di tariffe.