Una manifestazione contro gli abusi a Roma - Ansa
L’urgenza di una formazione ad ogni livello, l’impegno educativo, la promozione di una nuova cultura dell’accoglienza e dell’ascolto. Ecco le tappe irrinunciabili lungo il percorso coraggioso avviato dalla Chiesa italiana per prevenire e combattere gli abusi. Con la convinzione che tanto è stato fatto, ma tanto ancora rimane da fare. Ne parliamo con Stefano Lassi, psichiatra e psicoterapeuta, membro del Consiglio di presidenza del Servizio nazionale per la tutela dei minori, docente alla Facoltà teologica dell’Italia centrale e alla Pontificia Università Gregoriana.
Professore, quali sono gli ostacoli non ancora superati nel percorso avviato dalla Chiesa italiana per affermare la cultura della tutela e del rispetto nei confronti dei minori?
L’ostacolo principale è la cultura dominante, purtroppo anche nel cattolico, che per troppo tempo non ha considerato il bambino o l’adulto vulnerabile come soggetto attivo di diritti ma come oggetto di cura, trovando imbarazzante e inopportuno affrontare in modo sistematico i temi della sessualità in generale e, in particolare, quelli legati all’abuso sui minori. Ci siamo illusi un po’ ingenuamente che fossero episodi isolati quando invece avremmo dovuto capire per tempo che si trattava di un problema culturale, da affrontare a viso aperto, senza timore degli scandali. Cambiare la cultura vuol dire cambiare il modo di guardare alle cose, quindi un’operazione difficilissima. Ma dobbiamo fare tutti gli sforzi possibili per riuscirci.
Quale la strada più efficace?
Senz’altro quella della formazione, a tutti i livelli, superando la tradizionale dicotomia tra scienze religiose e teologiche e scienze umane. Oggi siamo sulla buona strada. Le scienze umane sono un caposaldo della nuova Ratio fundamentalis e nessuno penserebbe più di separare formazione teologica e spirituale dalla formazione umana. L’Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana è un esempio importante, ma anche tanti seminari a livello nazionale, oltre alle facoltà teologiche, vanno in questa direzione.
Tra gli sforzi prodotti dalle diverse Regioni ecclesiastiche, ci sono buoni esempi dal punto di vista organizzativo e dell’impegno nella formazione che dovrebbero essere più conosciuti a beneficio di tutti?
Sì, gli esempi per fortuna cominciano a moltiplicarsi. Alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale abbiamo un corso obbligatorio in tutela dei minori e prevenzione degli abusi per il triennio teologico. In Emilia Romagna è nato il progetto Safe coordinato da Chiara Griffini ( su Avvenire ne abbiamo parlato mercoledì scorso, ndr). Tra l’altro il bello di questo progetto è anche l’accesso on line gratuito, come abbiamo fatto con la Conferenza episcopale toscana. Ora dobbiamo lavorare con maggior convinzione sugli operatori pastorali, forse un ambito un po’ sottovalutato, ma anche sulle famiglie e sulla genitoralità, con corsi di sostegno specifici. Questo tema dovrebbe essere affrontato anche nella catechesi ordinaria delle parrocchie, come offerta integrata e di formazione. Un incontro in parrocchia sui rischi del web potrebbe per esempio risultare molto utile, coinvolgendo anche i ragazzi. Anche loro dovrebbero essere messi in condizione di avere maggior consapevolezza sulle modalità corrette con cui interfacciarsi con un adulto.
Dal punto di vista scientifico, abbiamo strumenti affidabili per mettere a fuoco gli aspetti psicologici legati all’individuazione precoce dei comportamenti potenzialmente abusanti?
Questo è un tasto dolente. Dal punto di vista scientifico non abbiamo strumenti infallibili per individuare in modo preventivo un potenziale abusatore. Certo, esistono piccoli test. Negli Stati Uniti è stato messo a punto un test chiamato 'Diana screen', che punta a individuare i segnali per cui una persona potrebbe abusare più facilmente di un minore. Ma tutto è opinabile. E certamente a un test deve sempre affiancarsi a una valutazione più complessa che vuol dire conoscere bene le persone e approfondire insieme a loro determinati temi, soffermandosi sugli aspetti più importanti. Faccio ancora l’esempio di quanto facciamo alla Conferenza episcopale toscana, dove a servizio del Propedeutico dei seminari abbiamo un’equipe che svolge un lavoro preliminare di valutazione spirituale e umana, e offriamo ai candidati un percorso di approfondimento con strumenti come l’intervista 'psico-sessuale'.
Quindi oggi l’esplorazione psicologica per i candidati al sacerdozio viene condotta con criteri tali da scongiurare in modo ragionevole il rischio di inserire nel clero soggetti con un equilibrio precario dal punto di vista della maturazione umana, affettiva e sessuale?
I limiti sono quelli che abbiamo detto. Non abbiano strumenti che ci dicono con certezza 'quello sì e quello no'. Si tratta di una valutazione che va sempre integrata in un percorso valutativo e formativo tale da permettere di inquadrare il profilo di personalità nell’ottica del tempo lungo. Perché solo in questo modo scattano i campanelli di allarme che ci dicono se in quella persona c’è una componente narcisistica, di rigidità o altre tendenze o patologie a rischio.
Non pensa che queste indagini, magari in forma diversa, meno strutturata, dovrebbero essere proposte per tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di minori nella realtà ecclesiale (educatori, catechisti, allenatori sportivi, ecc)?
Sarebbe un’esigenza reale. Ancora una volta la Chiesa si trova a fare da apripista, affrontando un tema che ovunque nel mondo occidentale è drammatico. Tra gli Scout d’America si parla di 60mila denunce di abusi su un numero molto grande di aderenti. Ma ci sono esempi preoccupanti nella scuola e nelle associazioni. Ecco perché dobbiamo lavorare su tutte le agenzie educative, a cominciare dalle famiglie.
Si è molto discusso in passato del rapporto tra orientamento omosessuale, efebofilia e pedofilia. Oggi la distinzione sembra finalmente chiarita con una distinzione netta e non correlata tra le diverse realtà. È proprio così?
Sì, dal punto di vista scientifico non c’è nessuna correlazione tra omosessualità e abusi sessuali sui minori. Ma direi di più. Non c’è neppure un rapporto obbligato tra persona abusante e persona pedofila. Non tutti gli abusi sono dovuti a pedofilia, ma possono essere sostenuti da altre patologie e, soprattutto, dall’immaturità del soggetto. Al di là dell’orientamento sessuale, un percorso di educazione alla sessualità deve offrire alla persona la possibilità di integrare la propria sessualità nella propria realtà esistenziale, lavorando su se stessa e sulla propria identità.