Il vaccino AstraZeneca, oggi denominato Vaxzevria - Ansa
Il raro evento avverso da vaccinazione anti-Covid ha ora un nome. Dare il nome a qualcuno o a qualcosa è un atto di riconoscimento della sua realtà (chiamo ciò che è, non quello che non esiste) e, sin dalle culture arcaiche, costituisce la prima accettazione di un soggetto o di un oggetto meritevole di considerazione. Il nome ci rende note le cose, come stanno («Nomen quasi notamen quod res notas efficit», Isidoro di Siviglia, 1472).
Lo hanno riscontrato anche gli antropologi che tentavano di realizzare un censimento della popolazione di alcuni villaggi: nelle società primitive dell’Africa, il neonato non viene neppure contato nel numero di figli di una famiglia se non gli è stato ancora assegnato un nome. Così nella Bibbia. Il nome è un mezzo di conoscenza (cf. Gen 1,1-2,4a) e una condizione per il darsi ai nostri occhi di una realtà (cf. Qo 6,10). La “nominazione” (designazione) da parte di qualcuno è segno della sua autorevolezza e credibilità.
Veniamo al Covid. In alcuni pazienti vaccinati con il preparato di AstraZeneca (Azd1222; oggi Vaxzevria) sono stati riscontrati e notificati a partire dalla fine di febbraio eventi trombotici associati a carenza di piastrine (trombocitopenia), provocando la reazione di non pochi infettivologi ed epidemiologi che, in Italia e altri Paesi europei (ma non tutti), in un primo momento hanno messo in dubbio la plausibilità di una relazione tra questi eventi e l’inoculazione del vaccino. Successivamente si è tentato di ricondurre la patologia riscontrata – che in alcuni casi aveva portato anche al decesso del vaccinato – entro la frequenza aspecifica (cioè molto bassa) di queste forme di trombosi venose in sedi rare (come i seni venosi cerebrali e la vena splancnica) nella popolazione generale.
La pressoché costante presenza di una carenza di piastrine nei soggetti in cui si sono osservati gli eventi vascolari avversi dopo la vaccinazione ha costretto a cercare un’analogia patologica con un quadro clinico più calzante. Analogia che è stata trovata nella «trombocitopenia indotta dall’eparina» (Hit), una malattia "immuno-mediata" che può insorgere dopo il trattamento con questo farmaco e che viene attribuita a una reazione umorale contro il fattore piastrinico 4 (Pf4), con prevalenza maggiormente elevata nelle donne più giovani. Tuttavia i due quadri clinici non sono esattamente sovrapponibili, e le ipotesi per i casi osservati tra i vaccinati devono tener conto delle differenze molecolari tra eparina e preparato vaccinale.
La realtà è ostinata, e il pensiero scientifico-medico si è dovuto arrendere di fronte a essa riconoscendo di avere a che fare con un fenomeno patologico nuovo, raro ma di cui non si può escludere – come ammesso anche dall’Agenzia europea del farmaco (Ema) – la connessione causale con la somministrazione del vaccino AstraZeneca (si è già iniziato a indagare anche sul vaccino Johnson & Johnson, che utilizza anch’esso un vettore adenovirale).
Così ora alla patologia clinica gli specialisti in trombosi ed emostasi (a partire dalla loro Società scientifica tedesca GTH e successivamente da altre) hanno dato il nome di «trombocitopenia immune protrombotica indotta da vaccino» (riassunta nell’acronimo «Vipit»).
Una casistica di 11 soggetti con Vipit (22-49 anni; nove donne e due uomini; sei deceduti) è stata accuratamente descritta dal gruppo di Andreas Greinacher in un articolo sull’autorevole rivista New England Journal of Medicine, pubblicato il 9 aprile.
Trenta casi sono stati studiati anche dal gruppo di esperti della Commissione di farmacovigilanza per la valutazione del rischio (Prac) dell’Ema e descritti nel Report del 24 marzo.
Non è la prima volta, nella storia recente della medicina, che un evento avverso legato a un atto medico (il cosiddetto "effetto iatrogeno") viene dapprima negato nella sua connessione all’intervento sanitario, successivamente assimilato a fenomeni patologici riscontrati nella popolazione generale e, infine, riconosciuto come una nuova entità nosologica attraverso la sua designazione.
È stato il caso della “Sindrome da iperstimolazione ovarica” (Ohss), che iniziò a manifestarsi in pazienti sottoposte a una forte induzione farmacologica della ovulazione (gonadotropine e altre molecole) connessa alla fecondazione in vitro e che venne caratterizzata come un quadro clinico distinguibile da altre patologie ovariche ormono-dipendenti.
Inutile negare o sminuire i possibili eventi avversi rari ma seri riscontrati nella somministrazione dei vaccini (come avviene anche per altri farmaci), o nasconderli in qualche modo agli occhi dei cittadini, nella speranza di evitare timori sproporzionati o rifiuti irrazionali. Come la storia del rapporto tra paziente e medico insegna, la fiducia del primo il secondo se la conquista con la correttezza professionale, la trasparenza e il dialogo.
La vicenda del vaccino AstraZeneca mostra che invece serve iniziare – come si sta facendo in alcuni centri di ricerca clinica – a studiare il meccanismo molecolare e cellulare di insorgenza della Vipit per poter predisporre un approccio terapeutico o preventivo che consenta di mettere in sicurezza i vaccinati con i preparati che manifestano, tra i possibili eventi avversi anche, questa sindrome protrombotica. È la strada che concorrerà all’esito positivo atteso dalla campagna vaccinale in corso.