Niente Iva per le armi italiane vendute a Paesi terzi dell’Ue, qualora siano impegnati in uno «sforzo di difesa svolto ai fini della realizzazione di attività dell’Unione nell’ambito della sicurezza comune». Nel pieno del dibattito sulla spesa militare, riemerge quanto prevede una direttiva europea risalente al 2019 ma attuata dal Consiglio dei ministri il 24 febbraio scorso, primo giorno del conflitto in Ucraina. Poco dopo, il 28 dello stesso mese, è stata trasmessa al Senato, a cui il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, ha chiesto in merito un parere delle commissioni competenti.
Ieri poi è stata incardinata in commissione Finanze, dove però è arrivato l’«alt» dei componenti. Ad accorgersi «con una certa indignazione » che qualcosa non andava è stato il senatore pentastellato Steni di Piazza: «Da quello che abbiamo potuto leggere – spiega ad Avvenire – le armi che saranno prodotte in Italia, trasferite ed esportate in uno Stato membro dell’Unione europea, saranno esenti da Iva e da accise ».
Considerato che l’Iva va dal 4 al 22 percento e che l’aliquota più bassa viene applicata ai beni considerati 'necessari', «in buona sostanza, attraverso questa operazione, le armi saranno equiparate a un bene di prima necessità e, cosa ancor più grave, si crea un regime per cui le aziende che le fabbricano saranno avvantaggiate assieme al sistema di ricchezza a loro collegato», fa notare Di Piazza. Senza contare che allo stato attuale, con la guerra in corso, le industrie militari quotate in Borsa hanno già avuto un’impennata sensibile. «Di fatto si tratta di un incentivo per la produzione di materiale bellico – insiste il senatore –, come accaduto durante la seconda guerra mondiale».
L’unica differenza, osserva, «è che non potendo più parlare di 'guerra', nel tentativo di aggirare la Carta costituzionale che la ripudia, si preferisce la dicitura 'sforzo di difesa'». Il testo non consentirebbe, per capirsi, di vendere armi all’Ucraina che non è nella Ue. Ma si potrebbero vendere invece a Polonia e Romania. E «non è specificato che le armi non debbano essere necessariamente utilizzate dalle forze del Paese destinatario », rincara il senatore M5s.
«Mi indigna il fatto che a me, proponente di un emendamento per escludere il Terzo settore dal taglio dei crediti dovuti dagli enti locali in dissesto, non sia stata data alcuna risposta perché non si era in grado di quantificare i costi. Ora però, senza alcuna preoccupazione per le spese, si vuole togliere l’Iva alle armi. Questa è un’economia totalmente immorale », insiste Di Piazza. Scorrendo la relazione illustrativa non è chiaro cosa si intenda per «prestazioni di servizio destinate alle forze armate» (armi, rifornimenti, viveri...) né se si tratti di un’esenzione totale o solo di una diminuzione, di quante e quali accise si prevede il taglio e per quanto tempo sarà in vigore la misura.
Anche per questo, forse, i componenti della commissione Finanze di Palazzo Madama non se la sono sentita di discutere il provvedimento senza ulteriori chiarimenti, già chiesti all’esecutivo e attesi per la settimana prossima. «Devo dare atto a tutti i miei colleghi di aver preteso ognuno maggiore chiarezza – conclude Di Piazza –. Voglio però sottolineare la tempistica di questa ratifica, approvata il primo giorno dell’aggressione russa. Il primo pensiero del governo è stato quello di ratificare un testo del genere. Anche perché deve essere fatto entro il 30 giugno. Evidentemente il conflitto ha convinto qualcuno ad accelerare.
Così potremo produrre e vendere noi le armi. Ma non è attraverso l’incentivazione alla produzione di bombe che si combatte la guerra e si ottiene la pace tanto invocata».