Abdurahman al-Milad, detto Bija, in una recente foto a bordo di una motovedetta donata dall'Italia - undefined
Il piombo che ha eliminato il controverso comandante Bija ha messo al sicuro per sempre i segreti che il guardacoste-trafficante serbava e talvolta minacciava di rivelare. Gli assassini sono arrivati prima della giustizia. Abdurahman al-Milad, noto come Bija o Bidja, è stato ucciso mentre a bordo di un fuoristrada guidato da un autista, lasciava l’accademia navale di Janzour (Tripoli).
Il suo nome era nella lista su cui aveva indagato la procura di Agrigento, prima che il fascicolo finisse a Palermo, ed era nell’elenco dei sospettati su cui indaga la procura della Corte penale internazionale dell’Aja. Traffico di esseri umani, armi, droga e petrolio erano diventati il «core business» del clan al-Nasr di Zawyah, grazie proprio al giovane «rivoluzionario», come gli piaceva farsi dipengere per avere partecipato alla rivolta del 2011 contro il collonello Gheddafi. In realtà l’unica rivoluzione nota è quella del suo patrimonio e dei forzieri della banda guidata dai fratelli Kachlaf, che aveva in Bija l’emissario presso le istituzioni libiche. Dapprima come comandante della polizia marittima di Zawjyah, in grado poi di scalare i vertici della Marina fino a diventare il responsabile dell’Accademia navale militare rimessa a nuovo da Bija, che ha potuto beneficiare di fondi gestiti autonomamente.
Nel settembre del 2019 “Avvenire” aveva pubblicato le immagini che ritraevano proprio Bija, allora capitano della cosiddetta guardia costiera libica, durante un viaggio in Italia nel 2017, tenuto a lungo riservato dalle autorità. La notizia fece il giro del mondo provocando reazioni sulle principali testate internazionali. Ma ad oggi, cinque anni dopo la pubblicazione e sette anni dopo i fatti, i governi italiani che si sono succeduti non hanno mai chiarito quali fossero le tappe della missione di al-Milad in Italia, nonostante due dozzine di interrogazioni parlamentari in gran parte rimaste inevase.
Insieme al resto della delegazione libica, a quanto è stato possibile ricostruire, il comandante Bija aveva partecipato a riunioni ufficiali con agenzie Onu e rappresentanti delle autorità italiane (che lo avevano invitato e concesso il visto gratuito come ospite) presso il Centro richiedenti asilo di Mineo, nel Catanese (poi chiuso), negli uffici del comando della Guardia costiera a Roma, dove avrebbe soggiornato in una residenza delle forze armate, oltre ad aver compiuto sopralluoghi nel porto di Catania, su quelle stesse banchine dove poi sono avvenuti gli sbarchi di migranti e alcuni dei più noti contenziosi politico-giudiziari per lo sbarco di naufraghi dalle navi delle Ong e della Guardia costiera italiana.
Nel corso delle indagini giornalistiche confermate dalle investigazioni giudiziarie, sono stati appurati legami tra Bija e tre torturatori arrestati in Sicilia e condannati a 20 anni di carcere ciascuno con rito abbreviato. Secondo l’accusa, che ha superato il vaglio dell’Appello e attende ora l’esito della Cassazione, i tre lavoravano a servizio di Bija e di Osama al-Kuni e avrebbero compiuto torture estreme, fino a provocare la morte dei profughi.
Anche l’ultimo rapporto degli ispettori Onu in Libia ha ribadito il crescente ruolo politico-criminale di al-Milad per il quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva chiesto a Tripoli di licenziare il comandante-trafficante e bloccare il pagamento dello stipendio. Il governo tripolino ha invece continuato a violare la risoluzione e protetto Bija anche dalle indagini internazionali, che vedono il nome di al-Milad e dei principali esponenti della criminalità libica nella lista degli “alert” diramati in campo internazionale dall’Interpol.
Niente in Libia avviene per caso. Nei giorni scorsi “Avvenire” aveva ottenuto due recenti foto di Bija, fatte circolare come fossero un messaggio piuttosto obliquo. Si vede al-Milad, nella divisa da maggiore della Marina Libica, a bordo di due motovedette. Non due natanti a caso, ma una “Classe Bigliani” e una “Classe Corrubia” donate dall’Italia. Un modo per far sapere che nessuna indagine e nessuna risoluzione lo avevano lasciato a terra.
Abdurahman al-Milad, detto Bija, in una recente foto a bordo di una motovedetta donata dall'Italia - undefined
Abdurahman al-Milad, detto Bija, in una recente foto a bordo di una motovedetta donata dall'Italia - undefined
Nei giorni scorsi la giornalista irlandese Sally Hayden, a bordo della “Geo Barents” di “Medici Senza Frontiere”, aveva raccolto le testimonianze di numerosi migranti a lungo imprigionati e abusati a Zuara, i quali parlavano di un tale direttore della prigione chiamato “Osama”. «Quando gli venivano mostrate alcune vecchie foto (pubblicate da “Avvenire”, ndr) molte persone sembravano identificarlo - scrive l’Irish Times di Dublino - come un famigerato trafficante di esseri umani, operativo in Libia, noto come Osama al Kuni Ibrahim». E’ il cugino di Bija, anch’egli soggetto a sanzioni internazionali, ma ancora inquadrato sotto il “Dipartimento contro l’immigrazione illegale” di Tripoli, con il ruolo e lo stipendio di direttore di alcuni centri di detenzione indicati dall’Onu come luoghi nei quali avvengono «orrori indicibili». Alcuni richiedenti asilo passati dai campi di prigionia di Zuara hanno poi riferito di aver visto “Osama” spesso in compagnia di un altro uomo, prima che i migranti venissero poi stipati sui gommoni diretti verso l’Italia. Quando gli sono state mostrate alcune foto, hanno riconosciuto proprio Bija. E’ la prova che il gruppo di Zawiyah fosse riuscito a guadagnare terreno a Zuara, espandendo il proprio controllo del territorio e dei flussi migratori.
Tra ottobre 2020 e aprile 2021 Bija era stato in carcere con l’accusa di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante. Il giorno della liberazione, suggellato con la cancellazione delle accuse, la riammissione nella Marina e la promozione al grado di maggiore, a Zawiyah i festeggiamenti andarono avanti per ore, bloccando la strada costiera verso la Tunisia.
Le intelligence internazionali sono in allarme, perché l’agguato contro Bija potrebbe segnare il punto di non ritorno verso una guerra di mafia che tiene insieme criminalità, politica, interessi internazionali. Già nella serata di ieri sono state segnalate sparatorie alla periferia di Zawiyah, mentre un certo numero di migranti potrebbero essere dati in pasto al mare per tornare a ricattare quei Paesi che con Bija e i suoi uomini avevano un patto non scritto per la riduzione delle partenze, un’intesa inconfessabile che adesso potrebbe saltare.
Alcune fonti di intelligence non escludono che possa essersi trattato di un regolamento di conti interno, messo in atto per frenare gli appetiti del guardacoste quarantenne e mandare un messaggio a chi pensa di fare lo stesso. Perciò si guarda alle prossime ore per decifrare il movente e misurare le ricadute della clamorosa imboscata.
Il governo di Tripoli fino alla tarda serata di ieri non ha commentato l’agguato. Moammar Dhawi, leader di una milizia nella Libia occidentale, ha pianto la morte di al-Milad e in una dichiarazione su Facebook ha chiesto un'indagine per assicurare i responsabili alla giustizia. Quella giustizia che migliaia di migranti torturati, uccisi, venduti come schiavi e lasciati affogare, non potranno ottenere se i “segreti di Bija” continueranno a essere protetti dalla promessa del silenzio.