No alla sospensione di idratazione e nutrizione, anche se artificiali. E sì alla possibilità di sollevare obiezione di coscienza non solo da parte dei medici ma anche delle strutture sanitarie – soprattutto cattoliche – ispirate all’intangibilità della vita umana. Nelle parole affidate lunedì a Radio Vaticana, il presidente della Cei cardinale Gualtiero Bassetti ha tratteggiato le due grandi tematiche che racchiudono i principali interrogativi posti alle coscienze dal disegno di legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (Dat): tutela dell’esistenza umana e libertà – da parte di ognuno – di rispondere alla propria legge morale. Sono valori umani prima ancora che cristiani, ma valori che il provvedimento in discussione in queste ore al Senato rischia di minare alla radice.
Basti pensare alla definizione di acqua e cibo somministrati attraverso un presidio medico: la comunità scientifica non è per nulla concorde sul fatto che tale sostentamento sia da considerarsi sempre e comunque una terapia sanitaria. La bozza di norma in discussione sì. Una volta approvata la legge così com’è, dunque, non ci sarebbe alcuna distinzione tra il paziente che, seppure in buono stato di salute generale, volendo morire chiede il distacco del sondino, e il medico che compie la stessa azione quando il malato è ormai alle ultime ore di vita, e la costanza di nutrizione e alimentazione artificiali ne allungherebbero l’agonia senza alcun beneficio: ma il primo caso costituisce una condotta eutanasica, il secondo un rifiuto dell’accanimento terapeutico. Pratiche che una legge medica dovrebbe differenziare con molta chiarezza. I sostenitori del ddl sostengono tuttavia che il testo tratta solo di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento non contemplando l’eutanasia. Ma ciò è vero solo nella lettera, non nella sostanza: affermando infatti che il medico è tenuto a osservare la volontà del paziente, e che in conseguenza di ciò egli è libero da responsabilità penale e civile, il provvedimento introduce la possibilità che i sanitari – se richiesti dal malato o da chi ne esercita le facoltà – 'stacchino la spina' quando ancora il paziente non è terminale. Così facendo assicurano la sua specifica volontà di porre fine all’esistenza, ma sospendono di fatto – seppur silenziosamente – la configurazione delittuosa che il nostro Codice penale dà sia dell’omicidio del consenziente (eutanasia), sia dell’aiuto nel suicidio (in medicina, il cosiddetto 'suicidio assistito'). A fronte di una norma che, se richiestogli, obbliga il medico a sopprimere (sia pur indirettamente, attraverso la sospensione di presidi vitali) il proprio paziente, non ce n’è un’altra che gli consenta di sollevare obiezione di coscienza.
Eppure quest’ultimo è un diritto costituzionalmente garantito, fondato sul diritto alla propria libertà morale, e già da quarant’anni presente nella legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il testo discusso in Senato, invece, si limita a esentare il medico da «obblighi professionali» quando riceve richieste contrarie a norme di legge o deontologiche, o alle buone pratiche cliniche, ma senza elevare l’eventuale rifiuto – come imporrebbe la Costituzione – a esercizio di una libertà fondamentale. Attenzione: non si tratta di un sofisma giuridico ma di una differenza potenzialmente destinata a impattare sulla concretezza quotidiana. Pensiamo a un caso disciplinato dalla legge, e cioè a quello in cui si verifichi un contrasto tra la volontà dell’amministratore di sostegno di un paziente e il proprio sanitario: a decidere la vita o la morte della persona più debole sarà il giudice tutelare, e il medico – che essendo intervenuta una sentenza non potrà né sollevare un problema di antigiuridicità, né di contrarietà alla deontologia – si troverà costretto a obbedire. Nonostante le sue convinzioni contrarie, e a dispetto di quell’agire secondo scienza e coscienza che ha fondato per millenni la relazione di cura.