Le operazioni a bordo del gommone di Emergency - Foto di Luca Liverani
Il gommone vola sulle onde, spinto dai suoi due grossi motori Honda da 200 cavalli. La barca in distress, in difficoltà perché fragile e sovraccarica, ora è a poche decine di metri e il pilota rallenta. Un soccorritore in piedi sulla prua informa il pilota: «Cinque, quattro, tre, due, uno. Ancora poco, indietro. Ora stop». Il gommone è a una spanna dall’altro natante. Tenere la distanza lavorando di motore e timone è una impresa da equilibristi oggi, con queste onde da un metro e mezzo.
È il momento del mediatore culturale, che inizia a gridare in inglese (se serve in arabo o tigrino): «Calma, rimanete seduti. Siamo italiani, ora vi diamo giubotti salvagente, ce ne sono per tutti. Poi vi portiamo sulla nave madre». Uno alla volta, sorretti dai soccorrittori, gli occupanti fanno un passo e sono sul gommone. Un piccolo salto per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità riconquistata
Eccola, la mother ship, la Life Support. Bianca e rossa come il logo di Emergency che da ottobre 2022 ha tratto in salvo dalla micidiale rotta del Mediterraneo centrale 1.080 persone. L’operazione appena descritta si è appena svolta, al largo delle coste della Sicilia orientale, alla vigilia della partenza per le acque internazionali tra Malta e Libia. Per ora è stata una simulazione, che posso raccontare perché sono stato anch’io sul Rhib One, sigla inglese per “imbarcazione gofiabile a chiglia rigida”, durante uno degli addestramenti continui del SAR team della nave, le due squadre di ricerca e soccorso che alternativamente si sono scambiati i ruoli di soccorritori e naufraghi.
Perché si fa presto a parlare di salvataggio di migranti, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare pronto a inghiottire persone debilitate e disperate. Nulla è lasciato al caso. Emergency segue un protocollo operativo osservato scrupolosamente dai due SAR team. Su ognuno dei due gommoni ci sono il pilota e due soccorritori, oltre a un mediatore culturale e un infermiere che, dopo il primo contatto, torneranno sulla nave per l’accoglienza. La procedura, messa punto in 14 missioni, ha permesso finora di evitare incidenti e dispersi.
Merito anche di Emanuele Nannini, 42 anni, marchigiano di Fano, attualmente capo missione della Life Support, responsabile già dalla seconda operazione. «Dobbiamo partire dal presupposto che si tratta di imbarcazioni molto precarie», spiega dopo aver concordato col comandante la rotta, nel ponte di comando della nave tutto legno chiaro, display e strumentazione. «Bisogna evitare di fare danni, per questo evitiamo di toccare le barche col gommone». Due i rischi da tenere sempre presenti: «Il primo è il capovolgimento. Il fianco delle barche di legno, vetroresina o ferro, è basso, e se imbarcano acqua si rovesciano». L’altro è il cedimento strutturale: «I gommoni possono aprirsi da proppa, o la chiglia staccarsi dai tubolari di gomma. Sono imbarcazioni di cattiva qualità, inadatte a navigare in mare aperto».
L’altro problema per i soccorritori è il crowd control: «I migranti spesso sono in mare da diversi giorni, atterriti. Alla vista del nostro gommone possono spostarsi tutti su un lato, per salire per primi, rischiando di cadere o rovesciare la barca». Per questo è fondamentale il discorso del mediatore culturale per rassicurarli, assieme alla distribuzione dei salvagente».
I gommoni di Emergency quindi non affiancano mai lateralmente le barche, ma di punta: «L’approccio perpendicolare serve a offrire quella che chiamiamo una “entrata stretta”, che li obbliga a un trasbordo uno per volta», e non largo diversi metri come il fianco, che scatenerebbe una reazione di massa.
Il contatto va evitato anche per preservare l’imbarcazione di soccorso da possibili danni: «È successo due volte, durante una delle prime esercitazioni e poi in un soccorso. I tubolari gonfiabili sono a sezioni separate, non affondiamo, ma il mezzo è fuori uso». Da allora sul muso del Rhib one è stato montato un voluminoso paraurti nero di gomma e neoprene.
L’accoglienza a bordo è ugualmente standardizzata perché il viaggio fino al porto sicuro si svolga senza incidenti o litigi tra i naufraghi: «Certo, il tempo che passa rischia di aumentare le tensioni fino all’arrivo al porto sicuro». Ma portare i migranti sulla terra ferma il prima possibile ultimamente non è una priorità. Come quando alla Life Support è stato assegnato dal governo il porto di Ravenna: quattro giorni di navigazione col mare grosso.