Tutto partì con un colpo di fucile ad aria compressa sparato contro un gruppo di ivoriani che percorrevano la Statale 18 in direzione Gioia Tauro. Poi fu la rivolta, anzi, "la rivolta di Rosarno", sette giorni nei quali quella porzione di territorio della provincia di Reggio Calabria catalizzò l'attenzione dei media nazionali e internazionali. Domani ricorre il secondo anniversario della rivolta, data che ormai viene ricordata con manifestazioni, dibattiti e servizi giornalistici. Due anni passati a interrogarsi sui perché di quello scontro violento tra la comunità nera della Piana di Gioia Tauro e una parte dei cittadini rosarnesi, un periodo in cui poco o nulla sembra cambiato per i migliaia di migranti stagionali che ogni anno arrivano a Rosarno, Gioia Tauro, Rizziconi e qualche altro piccolo centro per la raccolta degli agrumi.Da quel colpo di fucile a aria compressa la comunità africana di Rosarno iniziò a protestare, occupò strade e marciò dai ghetti dell'ex Rognetta e dell'ex Opera Sila verso la vie cittadine e il palazzo municipale. Una protesta a tratti veemente, contrassegnata dalla risposta anche violenta da parte di alcuni cittadini di Rosarno. La città in quella settimana fu presidiata dalle forze dell'ordine, impegnate in un compito difficile, quello di tenere lontano le due comunità, per evitare che la rabbia di pochi potesse fare rompere del tutto un equilibrio fragile costruito in anni di convivenza, tutto sommato pacifica. Ci sono fotografie di quella settimana che rimarranno per sempre manifesto della rivolta. Le migliaia di cittadini africani armati di bastoni a presidiare i ghetti di Rognetta, a Rosarno, e dell'Opera Sila, sulla Statale 18 che collega Rosarno a Gioia Tauro; i raid notturni alla ricerca dei migranti fuggiti nelle campagne e feriti a bastonate; il presidio di molti rosarnesi al quadrivio Spartimento, a poche centinaia di metri dall'ex Opera Sila; infine, gli arresti e lo sgombero dai ghetti di migliaia di africani dirottati verso Crotone e la Puglia.
IL PARROCO: POCO È CAMBIATOA due anni dagli scontri tra la popolazione di Rosarno, in Calabria, e gli operai stagionali immigrati, durante i quali rimasero ferite 53 persone, secondo don Pino Varrà, parroco di San Giovanni Battista a Rosarno, la situazione non è migliorata. "Purtroppo - ha detto il sacerdote alla Radio Vaticana -, da parte delle autorità e degli enti non è cambiato molto. A parte il villaggio di container nella zona industriale, non c'è altra assistenza concreta". Il vero problema, spiega, è per chi non ha il permesso di soggiorno e non può quindi usufruire dei servizi messi in piedi dall'amministrazione comunicale: "Non possono, ad esempio, avere questi moduli abitativi, non possono usufruire di tanti servizi e, se continuerà questa crisi agrumaria, non saremo neanche più pronti per affrontare una nuova emergenza".
IL VESCOVO DI ROSSANO CALABRO: BASTA CON IL CAPORALATO"Basta con il caporalato". A dirlo è stato l'arcivescovo di Rossano-Cariati, mons. Santo Marcianò, che stamani ha visitato una baraccopoli dove vivevano 30 immigrati che è stata sgomberata oggi. "In sinergia con le istituzioni - ha detto Marcianò - intendo risolvere i problemi che stanno alla base della situazione di degrado in cui vivono tanti giovani provenienti da altri Paesi, a cominciare da quello del caporalato. Un fenomeno che porta allo sfruttamento dei migranti con la conseguenza che questi sono poi costretti a vivere in vecchie baracche fatiscenti perchè non hanno alternativa". I 30 immigrati che vivevano nella baracca, una piccola parte delle migliaia di migranti che ogni hanno arrivano nella zona di Corigliano per lavorare nei campi alla raccolta dei mandarini, intanto, saranno trasferiti entro oggi in un locale della Caritas a Corigliano.