martedì 3 settembre 2024
Tre esperti ci aiutano a capire cosa può essere successo nella testa di Riccardo, che a 17 anni ha sterminato la famiglia in cui si sentiva un «estraneo»
Lo sgomento dei ragazzi davanti alla scuola di Paderno Dugnano frequentata dal piccolo Lorenzo, 12 anni, e da suo fratello Riccardo, 17. Che l'ha ucciso insieme a mamma e papà

Lo sgomento dei ragazzi davanti alla scuola di Paderno Dugnano frequentata dal piccolo Lorenzo, 12 anni, e da suo fratello Riccardo, 17. Che l'ha ucciso insieme a mamma e papà - Fotogramma

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«In Italia, fino al 1986 i canarini erano usati nelle miniere per segnalare la presenza di gas tossici, come il monossido di carbonio, che li avebbe uccisi prima di avere effetti sui minatori. Un allarme visivo, perché cadevano stecchiti, e udibile anche da lontano: se non cantavano più, scattava l’allerta. Ecco – è l’immagine poetica e crudele al tempo stesso di Simone Feder, psicologo presso la Casa del Giovane, a Pavia – oggi i nostri canarini sono gli adolescenti. Ma il problema non va cercato nella morte del canarino, fuor di metafora nei gesti estremi in cui vediamo coinvolti i ragazzi, ma nell’aria che è tossica e, quindi, nella società».

“Da vicino nessuno è normale” cantava Caetano Veloso, smentito dal diciassettenne che a Paderno Dugnano ha cancellato la sua famiglia dalla faccia della Terra: normale anche da vicino, se si dà credito alle descrizioni che di lui fanno amici e parenti. Perché ne aveva, di amici e parenti, e anche parecchi, tra i quali, però, si sentiva un «corpo estraneo», «oppresso» come ha confessato agli inquirenti. «Il disagio di un ragazzo può essere invisibile, spesso celato e gestito dal giovane con una sofferenza dentro le mura, privata, silenziosa. E poi ce un’altra specie di disagio – prosegue Simone Feder – che visibile lo è fin troppo, addirittura eclatante, sotto gli occhi di tutti. È quella delle bande giovanili, degli scatti d’ira incontrollati, della rabbia furibonda. Nel caso in oggetto, convivono la premeditazione e l’agito impulsivo. Oggi è molto comune nei giovani, come abbiamo occasione di vedere nel nostro centro. Aumentano i casi di autolesionismo, per esempio, eppure quel che mi spaventa di più non sono i tagli che i ragazzi si infliggono ma che in loro cresca l’idea di morte. Un pensiero, quello della morte, che lavora all’interno de giovane e che se non viene intercettato, si trasforma in un agito che, per quanto atroce, finisce per non meravigliare».

E qui, gioco forza, l’attenzione si concentra sugli adulti, bersaglio facile, da qualche tempo: dove sono e cosa fanno mentre i loro figli sbarellano? «Permetta una citazione, Donald Winnicot ha scritto che dovunque c’è un adolescente che lancia una sfida, deve esserci un adulto pronto ad accoglierla. Ma noi – si chiede lo psicologo – quanto siamo in grado di interpretare quel che è un sfida? Non sappiamo guardare oltre, ci manca la capacità o la voglia di aiutare i giovani a gestire anche le frustrazioni. Di fronte alla fatica dell’essere genitori si passa la responsabilità agli specialisti. Secondo le indagini del nostro del nostro centro studi, un dato è in continua crescita e cioè come i giovani vengano sempre più presi in carico dagli specialisti. Un problema di natura educativa si fa diventare un problema sanitario».

Fatto sta, che il mondo giovanile ha rotto gli argini e la comunità educante è ancora in cerca – disperata? – di un modo per assistere, accompagnare e intervenire sulle fragilità e le vulnerabilità dei giovani. Il risultato è, per usare una metafora automobilistica, che se prima si passava da zero a cento in un certo lasso di tempo, oggi basta un attimo per perdere il controllo. «Vero. Dipende da come si approccia la realtà. Proviamo a racchiuderla in un rettangolo. In alto, c’è una prima parte di stimolazione: provo qualcosa. A questa, segue una parte centrale di raffreddamento cognitivo logico: penso e rifletto su quello stimolo che mi ha provocato qualcosa. E, infine, la terza parte è l’azione. Ecco, la parte centrale che è il raffreddamento cognitivo – spiega Feder – negli anni si è ristretta fino a scomparire. Ma è sul raffreddamento cognitivo che dobbiamo lavorare, nel ragionare sullo stimolo e nel fermarsi prima che diventi azione perché l’agito impulsivo è sempre più presente nei giovani».

Sui segnali difficili da cogliere nella quotidianità, su quanto sia facile illudersi che chi ha una famiglia e degli amici e una vita normale non abbia delle fatiche e dei tormenti ragiona Matteo Fabris, responsabile dell’area adolescenti della Fom, la Federazione oratori milanesi: «A mio parere, il malessere che descrive questo ragazzo che ha ucciso la famiglia è lo stesso di molti altri ragazzi ed è l’incapacità di saper dare il nome alle cose, di saper definire con parole, concetti, idee e immagini quello che si sta provando. Vale per le emozioni che si provano, per le situazioni che si vivono. Una incapacità di analizzarle che diventa un malessere insuperabile. E questo perché sempre più spesso si trascura l’interiorità per proiettarsi verso l’esteriorità, l’essere performanti e tutte le energie vengono fatte confluire verso questo scopo». Non saper descrivere un problema ha come conseguenza non saper chiedere aiuto per quel problema. Specie se non si individua nessuno, e questo pare il caso, con cui confidarsi, specie se non si riesce a trovare una propria collocazione nel mondo: «È una condizione diffusa tra i ragazzi. Spesso sono spaesati dalla vita che fanno e, sembrerà strano ma è così, proprio perché è piena di possibilità, piena di stimoli, di persone con cui misurarsi grazie alla rete e ai social... Il rischio di perdersi – è convinto Fabris – c’è ed è alto».

Insegnante e scrittore, Eraldo Affinati non usa mezzi termini: «Di fronte alla tragedia di Paderno Dugnano ho difficoltà a usare il plurale per definire i giovani, gli adulti, le famiglie. Nella ferocia di questo adolescente c’è un’irriducibile singolarità con la quale fare i conti. Mi colpisce – confessa - la solitudine lancinante del giovane omicida: non sociale, ma interiore. Sembra che soltanto adesso, paradossalmente, dopo il triplice assassinio, abbia ricevuto udienza. Ciò chiama in causa tutti noi. Lui voleva parlare e non ha trovato nessuno con cui farlo: dovremmo chiederci perché. Pensare alla rivoluzione digitale, che rischia di isolare tutti noi, non è sufficiente. L’abisso in cui è sprofondato questo ragazzo, prima e dopo la strage che ha commesso, ha qualcosa di raccapricciante che mina alla base la civiltà sociale».

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