giovedì 27 giugno 2019
Fermati assistenti sociali, psicologi e persino un sindaco che avrebbero messo in piedi un sistema di "gestione minori" illecito e redditizio. Accuse anche di maltrattamenti e abuso d'ufficio
Minori manipolati per darli in affido a pagamento: arresti
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Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti (ai domiciliari), medici, assistenti sociali, psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Torino sono stati stati arrestati dai carabinieri di Reggio Emilia.

*** AGGIORNAMENTI

Il 20 settembre 2019 il Tribunale del Riesame ha revocato i domiciliari a Carletti, imponendo però l'obbligo di dimora

Il 3 dicembre 2019 la Corte di Cassazione ha annullato la misura cautelare dell'obbligo di dimora. Nelle motivazioni, pubblicate successivamente (il 14 gennaio 2020) si legge che non c'erano gli elementi per imporre la misura coercitiva dell'obbligo di dimora ****

L'inchiesta “Angeli e Demoni” vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D'Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Ore e ore di intensi “lavaggi del cervello” durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l'uso di impulsi elettrici, un sistema che in realtà avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari”, sono alcune contestazioni che emergono dall'inchiesta.

Come è stato possibile tutto questo?
Mancanza di un coordinamento nazionale, crisi del welfare, assenza di un sistema di controlli. Ecco le piaghe del nostro apparato di tutela per i minori fuori famiglia. L’inchiesta di Reggio Emilia rende tragicamente evidenti inadempienze, “buchi” legislativi e situazioni ad alto rischio che da anni gli esperti – quelli davvero preoccupati di mettere al primo posto i bambini – non si stancavano di segnalare. Come è possibile che nei piccoli Comuni, quelli al di sotto dei 5mila abitanti – e sono quasi l’80 per cento degli oltre 8mila Comuni italiani – l’operato dei servizi sociali affidato, attraverso convenzioni, a cooperative e associazioni, si svolga di fatto senza controlli? Come è possibile che basti la relazione di un assistente sociale per convincere un giudice minorile a dare il via libera all'allontanamento coatto di un bambino da casa? E come è possibile che contro quel provvedimento non esista di fatto possibilità di difesa, visto tra il trasferimento nella “struttura protetta” e la prima udienza passano in media 6-8 mesi? Periodo lunghissimo e straziante per un bambino che non comprende cosa stia succedendo, perché i genitori l’abbiano abbandonato, cosa debba rispondere agli operatori che improvvisamente diventano le sue figure adulte di riferimento.

È possibile che in questi vuoti procedurali e legislativi si inseriscano figure come quelle che ieri ha messo in luce l’inchiesta di Reggio Emilia?
Professionisti squallidi e disonesti che si travestivano da personaggi cattivi delle fiabe per mimare i presunti comportamenti aggressivi dei genitori nei loro confronti? Che utilizzavano strumenti come elettrodi applicati alle tempie per sottoporre i bambini a lavaggi del cervello finalizzati a far confessare abusi sessuali che, come i carabinieri avrebbero accertato, non sono mai avvenuti? Che modificano addirittura i disegni dei piccoli, aggiungendo particolari erotici, per raccontare inesistenti deviazioni patologiche nella mente dei bambini? Sì, purtroppo, tutto questo è stato possibile. E né le leggi, né gli strumenti di controllo hanno impedito che proprio nel cuore del sistema pensato per la tutela dei minori ¬ - assistenza sociale, unità sanitarie, amministrazioni locali, tribunali per i minorenni – si annidassero orchi e sciacalli. Nel lunghissimo elenco di reati contestati agli arrestati - frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, falso in atti pubblico, violenza privata, lesioni gravissime, tentata estorsione, peculato d’uso e altro ancora – non c’è quello forse più grave. Aver rubato a questi ragazzi speranza nel futuro e fiducia nel mondo. Tanto che alcune delle vittime, oggi adolescenti, avrebbero manifestato gravi segnali di disagi con gesti di autolesionismo e tossicodipendenza. Ma ancora più grave è pensare che alcune delle persone e delle strutture coinvolte nei fatti resi noti ieri dalla procura di Reggio Emilia – per esempio il Centri studi “Hansel e Gretel” di Moncalieri – comparivano già nell'inchiesta “Veleno”, i terribili fatti capitati nella Bassa emiliana negli anni Novanta, quando decine di bambini vennero allontanati dalle famiglie per presunti abusi e riti satanici. Anche allora il ruolo degli assistenti sociali e degli psicologici incaricati di accertare i fatti sulla base dei racconti dei bambini era risultato sconcertante. Lo abbiamo raccontato su queste pagine in ogni dettaglio con i reportage coraggiosi di Giorgio Ferrari – il primo cronista ad occuparsene più di vent’anni fa – poi di Lucia Bellaspiga.

Se ora il collegamento tra i due casi venisse accertato in modo evidente sarebbe la dimostrazione di un incredibile e consolidato sistema di impunità costruito sulle spalle dei piccoli. Una lunga scia di orrori resa possibile proprio dal silenzio di quegli organismi che dovrebbero proteggere i bambini in un momento triste e delicato della loro vita, cioè l'eclisse o la fragilità dei genitori. Ma, se come purtroppo avviene nella maggior parte dei casi non c’è nessuno che controlla i controllori, può capitare anche questo. E può succedere per esempio che uno strumento estremo, come l’articolo 403 del codice civile - allontanamento coatto d’urgenza di un minore della sua famiglia con l’intervento delle forze dell’ordine – sia utilizzato da un’assistente sociale, con il consenso formale del sindaco, senza che il giudice minorile abbia strumenti, opportunità e risorse per verificare la fondatezza di quell'intervento dirompente. E che poi lo stesso giudice sia “costretto” a costruire un procedimento avvalendosi quasi esclusivamente delle perizie condotte da psicologi che operano nelle cooperative in cui sono presenti le stesse assistenti sociali. Un intreccio ad alto rischio che troppo volte, in questi anni, è sfociato in episodi contestati ma anche in clamorosi errori giudiziari. Casi isolati, certamente. La maggior parte degli assistenti sociali – e anche dei giudici minorili – è affidabile e preparata. Ieri Gianmario Gazzi, presidente dell’ordine degli assistenti sociali, ha invitato a non costruire processi sommari, ribadendo che i professionisti del sociale sono sempre dalla parte dei bambini e dei più deboli. “Se qualcuno ha abusato del proprio ruolo, saremo i primi ad avviare azioni contro di loro, come costituirsi parte civile nell'eventuale processo”. Giusto, ma ora vanno riformate quelle strutture e quei “vuoti” che concorrono all'ambiguità e all'incertezza. A cominciare dalle strutture che accolgono i bambini fuori dalla famiglia. In Italia sarebbero circa tremila. “Sarebbero”, perché non esiste un registro nazionale e neppure un modo univoco per definire queste realtà. Ogni regione fa da sé. Una scelta tollerabile? Ed è accettabile che non esista un unico organismo di controllo per le caratteristiche delle strutture d’accoglienza? Anche qui non si può generalizzare. La maggior parte svolge il proprio compito in modo ammirevole e trasparente. Ora, quando il giudice decide di collocare un bambino in comunità, con quale criterio sceglie? Al di là di emergenze legate alla situazione del territorio, dovrebbe essere guidato dalle diverse tipologie di bisogno. Non tutti i bambini possono essere mandati in affido familiare e non per tutti è opportuno andare in "casa-famiglia". Dal novembre 2017 le linee guida sull’accoglienza dei minori prevedono 7 macrotipologie. La prima riguarda le comunità che offrono la presenza di uno o due adulti. Cioè le comunità in cui chi accoglie vive con chi viene accolto. Sono appunto le "case famiglia" o "comunità familiari". Poi ci sono le "comunità educative" caratterizzate alla turnazione degli educatori. Qui nessuno vive stabilmente, ma ci sono operatori che si avvicendano. Le altre tipologie sono le "case di pronta e transitoria accoglienza", le "case per gestanti e madri con figli", le "comunità alloggio" per i ragazzi più grandi, anche maggiorenni, in semi autonomia. E infine ci sono i "gruppi appartamento" in cui vivono maggiorenni con operatori non sempre presenti. C’è poi la tipologia proposta dalla "Giovanni XXIII" che tecnicamente comprende "case famiglia multi-utenza complementare" nella convinzione che i bambini abbiano bisogno di essere accolti in case dove ci sono anche anziani, ragazze madri, disabili, ecc. In questo modo le diverse tipologie del bisogno si completano al meglio. Tutto bene sulla carta, ma nei fatti? Come detto, non sappiamo neppure quante siano strutture perché soltanto tre o quattro regioni dispongono di una mappa aggiornata. E poi chi controlla il loro operato? Ancora le procure minorili, almeno formalmente. Ma in alcune regioni succede – la Lombardia attraverso le due procure minorili di Milano e di Brescia aggiorna quotidianamente “entrate” e “uscite” degli ospiti e verifica i motivi della destinazione - in altre purtroppo no. E i rischi di abusi e di casi problematici, in assenza di un registro nazionale, aumentano. Marco Giordano, presidente della federazione nazionale "Progetto Famiglia", ha segnalato un rischio reale. E che cioè «questa “ennesima” onda di fango indebolisca ulteriormente la già fragile capacità delle istituzioni e del volontariato di dare protezione e accoglienza a quelle migliaia di bambini e ragazzi che in Italia hanno bisogno di chi si prenda cura di loro perché una famiglia non ce l’hanno (visto che la loro si è disgregata) né riescono a trovarne un’altra (perché, casomai, sono ragazzi grandi, o bambini con disabilità importanti, o gruppi di fratelli…)». La vera questione è che in Italia bisogna ricominciare ad investire energie sociali, economiche, professionali, istituzionali per innalzare la qualità complessiva della tutela di bambini e ragazzi, assicurando anche migliori controlli e verifiche, e per sostenere più efficacemente le famiglie in difficoltà, in modo da prevenire le cause degli allontanamenti. «Sindaci, psicologi, giudici, assistenti sociali, case famiglia, famiglie affidatarie sono la soluzione, non il problema ma – ha concluso Giordano - occorre lavorare seriamente, con politiche chiare e continuative e con azioni trasparenti e verificabili».

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