domenica 19 novembre 2023
Giulia è stata uccisa, il suo corpo trovato in un dirupo. Dunque non era una «romantica fuga d'amore». Non era amore. Ecco come la violenza può restare invisibile fino a spiazzarci, di nuovo
Giulia insieme a sua sorella Elena in una foto postata da quest'ultima su Instagram

Giulia insieme a sua sorella Elena in una foto postata da quest'ultima su Instagram - Ansa

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Dunque non era una romantica «fuga d’amore». Filippo non era «un buono», non era – come ha ripetuto ieri, distrutta dal dolore, la sorella di Giulia Cecchettin – il «bravo ragazzo» che mai le avrebbe fatto del male. L’ha insultata, quando lei ha provato a scappare terrorizzata l’ha inseguita, presa per i capelli e picchiata a mani nude, l’ha trascinata per la strada e rinchiusa in macchina, l’ha uccisa a coltellate, alla testa, al collo, per poi gettarne il corpo esanime in un canalone. L’epilogo della tragica vicenda degli ex fidanzatini scomparsi a Padova, che arriva a pochi giorni dalla Giornata nazionale contro la violenza sulle donne del prossimo 25 novembre, racconta la storia che quest’anno s’è ripetuta 83 volte. Sempre identica.

Ci piacerebbe, soprattutto in questo caso, quando la vittima è una ragazza di appena 22 anni di buona famiglia, a un passo dalla laurea, col sorriso contagioso di chi ha tutta la vita davanti, e quando il killer è anche lui un ragazzo di 22 anni istruito, stimato e amato da tutti, pensare che è stato un momento di follia. Che qualcosa di misterioso e incomprensibile deve essere successo l’altra sera, che Filippo deve aver perso la testa, che questo orrore non può essere stato pianificato. «È un bravo ragazzo» appunto, per usare le parole di suo padre, «non può aver fatto una cosa così». E invece è successo, di nuovo. E invece eccolo, il copione della violenza, che per Giulia come per tutte le donne che di violenza sono vittime era iniziata molto prima dell’11 novembre: Filippo quando era ancora fidanzato con lei la controllava, la pedinava nei locali o quando usciva con le sue amiche, era ossessionato dal suo cellulare tanto da scriverle sempre il buongiorno e la buonanotte per verificare i suoi orari di accesso su WhatsApp.

Quando Giulia l’aveva lasciato le cose erano andate anche peggio: si presentava fuori da casa sua, la implorava, le ripeteva che «senza di te non posso vivere, non mangio più, non sono niente», non accettava che potesse laurearsi prima di lui, che potesse immaginare una vita in un'altra città e un futuro suo soltanto. L’amore come possesso, l’idea malsana e così drammaticamente radicata anche nelle nuove generazioni di uomini che le donne siano oggetti di cui disporre, manipolabili, plasmabili, che la loro identità e i loro progetti debbano soccombere nelle mani dei loro supposti padroni (padroni di password, padroni di casa, padroni di vita e di morte), erano già scritti in questa storia. Nessuno li aveva visti. Niente di sorprendente, se è vero che quasi la metà dei ragazzi di età compresa tra i 14 e i 20 anni non ritengono affatto forme di violenza controllare di nascosto il cellulare o i profili altrui, impedire al partner di accettare amicizie online, chiedere con chi esce o quali vestiti può indossare. Come dire: giovani e giovanissimi, su cosa sia amore e cosa no, sono del tutto impreparati. Il punto è che impreparati siamo anche noi adulti.

La violenza, prima che diventi schiaffo, stupro o omicidio (e indipendentemente dal fatto che lo diventi), resta invisibile e imprevedibile perché non siamo ancora disposti ad accettare che possa riguardarci da vicino, che possa coinvolgere i nostri figli, che possa nascere sui banchi di una blasonata scuola del Nord esattamente come in un quartiere degradato del Sud. E che lì vada sradicata, su quei banchi, trovando il coraggio di insegnare ai bambini e alle bambine gli uomini e le donne che potranno essere rispettandosi nella loro libertà e parità. Nessuna buona legge – anche se quella del governo pronta ad essere approvata punta su campagne di sensibilizzazione e prevenzione nelle scuole, che senz'altro sono utili e necessarie – può colmare la fame di educazione all’amore e alla relazione di cui i nostri ragazzi stanno morendo. Ne muoiono davvero. Serve più che mai questa educazione adesso, l'educazione è la sfida da affrontare. Perché la fine di Giulia abbia un senso.

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