giovedì 6 dicembre 2018
Salvini annuncia la volontà di uscire dalla missione militare Sophia, che combatte i trafficanti in mare. Ma tutto il piano di riforma Ue è in crisi, da Dublino alle quote
L'approdo a Lampedusa di 70 migranti, avvenuto a ottobre 2018 (Ansa)

L'approdo a Lampedusa di 70 migranti, avvenuto a ottobre 2018 (Ansa)

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La missione militare navale Ue di lotta agli scafisti, denominata Sophia, è a un passo dal chiudere i battenti dopo tre anni di attività. A fronte dello stallo sulla revisione del mandato – in scadenza il 31 dicembre – ieri un pesante colpo è arrivato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. «Al momento – ha dichiarato durante un’audizione di fronte al Comitato Schengen – non ci sono progressi significativi nel negoziato, nonostante le nostre richieste di cambiare le regole d’ingaggio. Senza una convergenza sulle nostre posizioni, non riteniamo opportuno continuare la missione». Roma, che ha il comando di Sophia, lamenta che l’attuale mandato prevede che tutti coloro che vengono salvati vengano poi fatti approdare nei porti italiani, e chiede una modifica affinché si ripartiscano gli oneri sia sul fronte dei porti, sia sulla redistribuzione dei migranti salvati. Ed è su questo che i Ventotto non riescono a trovare l’intesa, molti Paesi rifiutano categoricamente l’idea. «Noi – ha ribadito Salvini – manteniamo ferma l’indisponibilità a procedure di sbarco che prevedono l’approdo solo in porti italiani ». Ai Ventotto, in realtà, non piace l’idea di chiudere la missione. La quale, a differenza della missione Ue Themis, non ha come obiettivo la ricerca e il salvataggio in mare (anche se ha soccorso oltre 50.000 migran-ti), quanto la lotta ai trafficanti: sono oltre 150 le imbarcazioni sequestrate e distrutte. Il timore è che i flussi riprendano anche perché Sophia è responsabile dell’addestramento della Guardia costiera libica. E così ieri il Servizio di azione esterna Ue guidato da Federica Mogherini ha ipotizzato una proroga «tecnica» di sei mesi, il tempo di trovare l’intesa. Tutto, spiegano a Bruxelles, dipenderà dalla risposta di Roma.

Non è chiaro, però, come sei mesi in più potrebbero sbloccare la questione. In crisi è del resto l’intera politica migratoria dell’Ue. Che sarà (esclusa Sophia, che riguarda i ministri della Difesa) al centro della riunione di oggi dei ministri dell’Interno (Salvini non ci sarà). Certo, molto è stato fatto sul fronte esterno, con accordi con Paesi terzi (dal Niger alla Libia) che hanno portato al calo dell’80% in tre anni dei flussi nel Mediterraneo Centrale. Il problema è il fronte interno, a cominciare dalla cruciale riforma del regolamento di Dublino sull’asilo. Se ne parla da due anni, ma tutto si è arenato sulla solidarietà. Italia, Spagna e Grecia, con l’appoggio finora della Germania (che ora tentenna), insistono per la redistribuzione obbligatoria dei migranti. La Commissione Europea ha proposto un sistema di quote obbligatorie di richiedenti asilo ma, di fronte all’inflessibile opposizione dei Paesi dell’Est e dell’Austria, ha alzato le braccia. La discussione, ha detto il commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos, «è completamente esaurita». Bruxelles si è piegata alla richiesta dei Paesi dell’Est e rilanciata dalla presidenza austriaca di una solidarietà obbligatoria sì, ma «à la carte»: ognuno dà il contributo che preferisce, soldi, personale, materiale, ridistribuzione. L’Italia non può starci, anche perché, contemporaneamente, si vuole caricare gli Stati di prima linea di pesanti oneri aggiuntivi.

Risultato: Avramopoulos ha proposto di stralciare Dublino (rinviato al 2019) per «salvare» cinque normative su cui l’accordo c’è (il regolamento sulle condizioni per i richiedenti asilo, la direttiva sulle condizioni di accoglienza, il regolamento sull’Agenzia dell’Ue per l’asilo, il regolamento Eurodac e il regolamento sul quadro dell’Unione per il re-insediamento). Percorso in salita anche per un’altra misura simbolo: il rafforzamento di Frontex, l’agenzia delle frontiere esterne, con un ampliamento da 1.500 a 10.000 del numero di funzionari impegnati con poteri rafforzati.

Doveva andare in porto entro dicembre, invece anche qui i Ventotto si sono divisi. Paesi come Italia, Spagna, Grecia, Ungheria hanno detto no al mandato rafforzato, per una questione di sovranità nazionale. Altri, come la Germania, hanno messo in dubbio la finanziabilità di un organico di queste dimensioni. Se ne riparla nel 2019. Su tutto, lo spettro del futuro di Schengen, l’Europa senza frontiere, già sospeso in parte da Francia, Austria, Germania, Danimarca, Svezia: senza una riforma di Dublino e senza un controllo rafforzato delle frontiere esterne i controlli interni resteranno.

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