La mobilitazione nel territorio veneto delle “Mamme no Pfas”, di cui “Avvenire” si è occupato tanto in passato - .
I Pfas sono in grado di superare la barriera placentare e di arrivare al feto. Lo conferma uno studio apparso a fine gennaio sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet Planetary Health, frutto di una ricerca condotta da scienziati delle università di Örebro (Svezia) e di Aberdeen su 78 feti che ha dimostrato come queste sostanze siano in grado di raggiungere i tessuti del nascituro già durante il primo trimestre di gestazione. I Pfas sono stati ritrovati per la prima volta nel fegato dei feti studiati e, secondo il professor Paul Fowler dell’ateneo scozzese, «quelli esposti a libelli più elevati hanno subito alterazioni del metabolismo e di alcune funzionalità epatiche molto prima della nascita».
Il professore Carlo Foresta aveva già illustrato effetti della contaminazione su ragazzi nati da madri che vivono in territori inquinati da acidi perfluoroalchilici, con caratteristiche morfologiche chiare, per esempio nelle dimensioni ridotte dell’apparato riproduttivo nei maschi e nel numero e nella vitalità degli spermatozoi. Questo nuovo studio fornisce tuttavia la prova dell’ubiquità di queste molecole, che uno studio americano del 2008 (reperibile nel sito del National Institute of Environmental Health Sciences) ha ritrovato nel sangue del 98 per cento dei cittadini studiati tra il 2003 e il 2004. Dati scientifici che si aggiungono al pronunciamento di fine novembre dell’Agenzia internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc) secondo cui i due Pfas più diffusi in assoluto sono più pericolosi di quanto si pensava in precedenze. In particolare il Pfoa è considerato ora «certamente cancerogeno» e il Pfos è «possibile cancerogeno», esiti confermati da trenta studiosi da undici Paesi nel mondo.
In Italia l’inquinamento da Pfas viene collegato al Veneto, dove sono almeno 400mila le persone il cui sangue è contaminato e dove le “Mamme no Pfas” dal 2015 lottano con le magliette su cui riportano la concentrazione nel siero dei loro figli proprio dei famigerati Pfoa e Pfos. E tuttavia gli ultimi dati, pubblicati la settimana scorsa dalla Ong ambientalista Greenpeace, aumentano la preoccupazione sulla situazione in particolare del Piemonte. Secondo un rapporto basato su dati ufficiali di enti pubblici, le acque potabili piemontesi non sono contaminate solo nella provincia di Alessandria, ma anche in oltre 70 Comuni della città metropolitana di Torino, capoluogo compreso, e della provincia di Novara. Sarebbero circa 125mila i piemontesi che avrebbero bevuto acqua contenente Pfoa negli ultimi anni. Lo stabilimento Solvay di Spinetta Marengo, nel Comune di Alessandria (oggi unico produttore di Pfas in Italia, era indicato già nello studio Perforce dell’Università Stoccolma 2007) era indicato come presunto responsabile dello sversamento di molecole perfluoroalchiliche nel bacino del Po, ma nel tempo il “terreno” della contaminazione si è di molto allargato. Nel 2019 Arpa Piemonte aveva pubblicato uno studio epidemiologico che dimostrava la maggiore incidenza di molte malattie su una coorte di abitanti proprio a Spineta Marengo, a seguito del quale la Regione Piemonte aveva imposto una serie di limiti allo scarico in ambiente. Misure che ora vanno verificate alla luce dei dati pubblicati da Greenpeace.
A Nord Est, nel frattempo, continua il processo a 15 manager che nel tempo si sono alternati alla guida della Miteni, l’azienda presunta responsabile dell’inquinamento. Durante l’ultima udienza, il 1° febbraio scorso, è intervenuto il geologo Andrea Sottani come teste della difesa, dal 2001 tra gli esperti di acque sotterranee nell’ambito del progetto Giada della Provincia di Vicenza per lo studio dell’idrogeologia nell’area in cui sorge lo stabilimento di Trissino. Dalla sua deposizione è emerso che nella falda sottostante la fabbrica oltre a Pfas e GenX (composti di nuova generazione) sono state rilevate anche sostanze benzotrifuoruriche (Btf) e che l’azienda chimica vicentina era a conoscenza di tutto questo fin dal 1998, quando si era rivolta a una società terza per realizzare una barriera di emungimento per filtrare le acque inquinate.
Cosa sono i Pfas e perché fanno così male
I Pfas sono una famiglia di migliaia di composti, prodotti dagli anni Cinquanta con numerose applicazioni: tessuti impermeabili, schiume ignifughe, cosmesi, packaging, dispositivi medici, pentole antiaderenti. Sono considerati “inquinanti eterni” per la stabilità del legame chimico tra fluoro e carbonio su cui si basano e sono resistenti ad altissime temperature. «Esiste una documentazione sostanziale che dimostra una chiara associazione tra esposizione a Pfas ed effetti avversi sulla salute umana nella popolazione generale, soprattutto a livelli elevati, come quelli osservati nella “zona rossa” del Veneto». Così il professor Philippe Grandjean massimo esperto sui Pfas, durante la sua deposizione al processo in corso a Vicenza. “Pfas. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua” di Giuseppe Ungherese, è l’ultimo libro uscito sul tema, che racconta come queste sostanze cancerogene hanno contaminato l’Italia e il nostro corpo.