Il cardinale Federico Borromeo durante la peste di Milano - Copertina
La peste. Quante volte questa epidemia di covid, che sembra interminabile, è stata accostata alla malattia tristemente passata alla storia di Milano e raccontata dai più celebri autori, a cominciare dal Manzoni nei Promessi Sposi? Ora, quasi a monito ma sicuramente a guisa di speranza, due volumi di Luni editore ripropongono i momenti bui della storica pestilenza a riverbero del periodo attuale con il quale, a ben leggere, si trovano analogie inattese e inimmaginabili. Per la collana «I grandi pensatori d’Oriente e Occidente», «La peste di Milano» ripropone il De Pestilentia che Federico Borromeo, cugino di San Carlo e arcivescovo dal 1595 al 1631, ha scritto di getto durante i giorni della malattia e della disperazione. Un breve trattato ispiratore e fonte discreta del Manzoni.
Il cardinale Federico, che fu anche il fondatore della Biblioteca Ambrosiana, era «un tipo nervoso», imprevedibile come lo descrive Armando Torno, curatore del volume e traduttore del testo. «O si cade nell’agiografia — continua Torno — o nell’effetto opposto», aggiungendo che il De Pestilentia appare comunque una sorta di addio alla città del Borromeo: «Dialogo veloce tra un uomo e la morte» e ancora: «Uno scritto in cui appare l’anima del cardinale».
Il trattato descrive una città devastata dalla peste con visioni di morti incastonati nella narrazione di momenti, personaggi, credenze e indicazioni per sopravvivere.
Pagine percorse da untori, demoni — ai quali sembra dare credito anche il Borromeo, ma allora tali argomenti erano materia di dibattito tra dotti e medici — e poi, come nell’oggi, il futuro nero per artigiani e commercianti, tanti eroismi, l’isolamento, indicazioni per l’igiene e, alla fine, l’agognata ripresa del vivere. L’editrice Luni propone un’edizione che per la prima volta si avvale di una ricostruzione critica e di un’appendice di documenti in parte inediti.
In “La peste di Milano nel 1630”, prima traduzione integrale italiana del “De peste” di Giuseppe Ripamonti, le vicende dell’epidemia vengono raccontate invece da quello che si può definire un cronista speciale prima ancora che storico preciso e metodico.E ancora una volta sempre Manzoni trovò nel “De peste” innumerevoli informazioni per i suoi Promessi Sposi, nonché la cognizione della lotta tra bene e male.
Ma a noi per ora, può più semplicemente bastare il curioso e inedito raffronto tra gli avvenimenti di allora e quelli di oggi per stupire e forse anche sorridere e sperare. Troviamo infatti i «numerosissimi e rovinosi elementi da cui la peste trasse giovamento per crescere e rafforzarsi» nel ’600 e individuati dal Ripamonti ad esempio nel «credere che nessuno fu più importante e rovinoso del fatto che la gente non voleva credere che si trattasse di peste e scherniva con fischi , insulti e risate quanti pronunciavano quella parola».
A qualcuno viene in mente il termine no vax, per caso? E non stupiamoci degli attacchi social di oggi a studiosi e scienziati se già allora nel mirino c’era il principe dei medici Ludovico Settala, accusato di essere il capo di quanti denunciavano la malattia e che «dalla sua barba e dalla sua aria cupa la cittadinanza era indotta al terrore». Che dire poi dell’affollatissima processione concessa dal cardinale Borromeo con le spoglie di San Carlo che provocò un incremento del contagio?.
Infine scienza, Provvidenza e prevenzione ebbero la meglio sulla malattia grazie anche – riporta scupolosamente il Ripamonti – a provvedimenti di ordine pubblico: isolamenti, chiusure, lasciapassare. In pratica i «green pass».