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Covid-19, pena di morte, vita. È in questo tempo complicato, che oggi si vive la ventesima Giornata mondiale delle Città per la Vita in 2.446 località del mondo, 70 le capitali: da Seul e Dakar, da Barcellona a Bruxelles e Atlanta, con al centro Roma e il Colosseo. "Non c’è giustizia senza Vita". Messaggio chiaro. La vita si difende solo con la vita. La pena di morte aggiunge solo altra morte, non risarcisce le vittime, abbassa lo Stato e tutti noi a livello di chi uccide. Ancora più vero al tempo del Covid. La pena capitale suona come un "accanimento terapeutico sociale", quando in giro c’è già troppa morte. Sembrano percepirlo anche le classi dirigenti dei Paesi che la mantengono: l’anno scorso, nell’intera Asia le esecuzioni sono scese a 7, anche se i detenuti nei bracci della morte sono più di 13mila. E, dopo anni, nessuna esecuzione in Giappone, Singapore, Pakistan, Indonesia.
Basta morte. Forse è per questo che in questi giorni suona più strano l’ottimismo che spinge con allegria corale verso una legge sull’eutanasia e il suicidio assistito. La misteriosa soglia della fine della vita pone domande estreme e complesse, ma alla fine quella che resta è sempre una: di non essere lasciati soli. Penso che tante domande, diverse quanto è diversa la vita e la sofferenza di ognuno, chiedono di accompagnare senza solitudine, abbandono, dolore, sofferenza – per quanto è possibile – il morire, non di provocarlo. E questo è ciò che sta dentro la legge italiana sul fine vita, imperfetta ma che c’è già, e copre gran parte del nostro vivere e morire: lascia fuori di proposito l’eutanasia attiva e il suicidio assistito, ma assume nelle sue possibili umane forme la lotta al dolore e la domanda di accompagnamento.
Erano 58, le città, quando vent’anni fa nel 2001 la Comunità di Sant’Egidio lanciò questo movimento mondiale, ancor prima che più di metà degli abitanti della Terra cominciasse a vivere proprio nelle città, inurbandosi. Stiamo vivendo dentro un’accelerazione della storia del mondo. E una pandemia millenaria che si chiama pena di morte sta esaurendo la sua carica velenosa, non è più impensabile vederne l’uscita dai libri delle leggi, come la schiavitù e la tortura. Nel 1977 i Paesi abolizionisti erano 16, oggi quelli che per legge o di fatto l’hanno abolita sono 144. E tra 55 Paesi mantenitori nel 2020 l’hanno usata davvero in 18. Le esecuzioni registrate negli ultimi 5 anni sono diminuite tre volte, scendendo nel mondo a 483 da più di 1.500, e anche là dove non si hanno dati completi, come nel caso della Cina, gli osservatori concordano sul fatto che c’è un calo di almeno il 30%, dovuto a cambiamenti partiti dal centro.
Perché è importante l’abolizione della pena capitale? Perché è la sintesi delle violazioni sulla vita umana. Qui si decide l’umanizzazione e la disumanizzazione. Prima: nei crimini commessi. Durante: nella vita nel braccio della morte. Dopo: nell’esecuzione in cui esseri umani distruggono la vita di altri esseri umani. «È sempre inaccettabile perché mina l’inviolabilità e la dignità della persona umana», è la sintesi di Papa Francesco. È un’altra frontiera dell’hybris dal sapore amaro, con la tentazione di sostituirsi a Dio.
Conosco un innocente, "esonerato", che ha trascorso 22 anni nel braccio della morte in Pennsylvania. Era un tossicodipendente. Che non sapeva nemmeno chi fosse la vittima. In attesa di morire decise di leggere. Un libro al giorno, più di seimila libri. «Sei arrabbiato per tutti questi anni che ti hanno preso?». «No, prima ero uno assurdo, un idiota!». Mi ha sempre impressionato quante cose si imparano a contatto con i condannati a morte. Come Curtis Mc Carthy, 21 anni, in Oklahoma, scagionato da una prova del Dna. «Vuoi sapere se provo rancore, se vorrei vendetta per quello che ho subito? No, perché sono un uomo libero, dalla violenza e dalla rabbia. Altrimenti sarei ancora prigioniero. Sarei ancora come loro». Il perdono come liberazione: nella vita di tutti i giorni è una cosa che viene venduta male, come "debolezza", e invece è la radice della guarigione. Varrebbe anche per le tante, inverosimili, violenze intra-familiari e per i femminicidi, anzi basterebbe meno. Meno senso di proprietà sulla vita dell’altro, la capacità di convivere un po’ con i problemi invece di concepire come unica vita possibile l’«eliminazione del problema», dell’altro. Ma loro l’hanno imparato lì, nel braccio della morte. Una benedizione rara quella di incontrare persone così.
Le si può incontrare anche solo scrivendo a un condannato a morte. L’intera Campagna mondiale contro la pena di morte della Comunità di Sant’Egidio è nata da una lettera e dalla risposta a una lettera. A scrivere era stato Dominique Green, un afroamericano che era finito nel braccio della morte in Texas, a Livingston, a 18 anni.
In questo ultimo quarto di secolo 15.384 volte la Comunità di Sant’Egidio, con l’aiuto di tanti, ha favorito l’incontro con un condannato a morte. Bisogna provare a metterle in fila, mentalmente, 15.384 persone tutte condannate a morte da qualche parte nel mondo. Ognuna con una storia, un crimine, un carcere, una vita, tutti i giorni, per milioni di giorni. Una lettera può fare la differenza, autodistruzione o rinascita, e nella pandemia è stata una maniglia di speranza per non affogare nella paura.
Queste stragi nelle carceri del mondo sono pagine poco conosciute. Come nel Pickaway Correctional Institution in Ohio: per 1.900 detenuti hanno cercato di fare tende con le lenzuola per separare le persone, ma i quattro quinti si sono infettati lo stesso di Covid. A Farmville, in Virginia, tutti i 339 detenuti si sono infettati, e nella Fresno County Jail, in California, oltre 3.800 persone sono state infettate dal virus. In Michigan 9 cittadini su 100 hanno contratto il virus, ma nelle prigioni dello stesso Stato lo hanno contratto in 76 su 100. In Arkansas 11 su 100 tra la popolazione fuori dal carcere e 72 all’interno dei penitenziari. E in Africa?
Da quella prima lettera è seguito molto: un’azione significativa a livello internazionale che ha contribuito a unificare un movimento abolizionista frammentato, ha aiutato direttamente, e assieme ad altri, una trentina di Paesi a scegliere la strada di una giustizia capace di rinunciare sempre alla morte. Un altro modo di costruire la pace, di "fare" pace. A Sant’Egidio, a Roma, è nata nel 2002 la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, come poi la Conferenza internazionale dei ministri della Giustizia, creando modalità innovative per arrivare all’abolizione in diversi Paesi, inclusi il "Far West" del New Mexico e il "Far East" della Mongolia. E milioni di firme raccolte a una a una in 152 Paesi del mondo, hanno contribuito in maniera significativa all’approvazione della prima Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu per una Moratoria universale. Dall’Italia è partita l’iniziativa che ha avviato la messa in crisi dell’iniezione letale come metodo "pulito". Ci si può unire, cominciando da un webinar, No Justice without Life (Nessuna giustizia senza vita) nel pomeriggio di questo 30 novembre 2021.