«Tra il 1990 e il 2000 il mare davanti alla Somalia era diventato una pozzanghera dove tutti gettavano di tutto. Nell’ambiente marittimo era risaputo ». L’ombra delle navi dei veleni rispunta dalle parole del comandante Kaizad H. Quarant’anni, di origini indiane, ha passato metà della sua vita navigando per i mari di mezzo mondo. Ora che si è ritirato sulla terraferma, continua a scrutare dalla scrivania ciò che si muove sulle onde degli oceani. «Adesso il mio lavoro consiste nel rintracciare navi attraverso il satellite», spiega al telefono da una località fuori Londra, senza entrare troppo nei dettagli.
La sua testimonianza, raccolta da Avvenire, conferma che per anni il mondo industrializzato ha scaricato porcherie nelle acque del Corno d’Africa. «Funzionava così – spiega Kaizad –: le industrie chimiche affidavano i loro scarti a contractors, che poi subappaltavano il trasporto per confondere le tracce il più possibile. Si creava una catena di società in modo che fosse assai difficile risalire alle responsabilità. Poi, invece di venire stoccate in modo sicuro in siti sulla terraferma, le scorie finivano per essere caricate a bordo di piccole navi e poi gettate in acqua. Queste ultime sono meno controllate, dunque è più facile passare inosservati e liberarsi del carico una volta arrivati in mare aperto. In quegli anni la Somalia era collassata, non c’era più la sorveglianza dello Stato sulle coste, quindi era il luogo ideale dove far confluire i traffici».
Parole che coincidono in modo inquietante con gli indizi messi in fila da diverse inchieste giudiziarie e giornalistiche, tutte legate da un unico filo rosso: la Somalia come meta costante di spedizioni tossiche senza mittente. Affari oscuri su cui pochi, con molto coraggio e poca fortuna, hanno cercato di far luce. C’è chi ha pagato con la vita, come Ilaria Alpi, uccisa nel 1994 a Mogadiscio. O come il capitano di fregata Natale De Grazia, morto misteriosamente un anno dopo, mentre da Reggio Calabria si stava recando a La Spezia per seguire un’altra pista inquietante, quella delle scorie radioattive affondate in mare.
Per questo le dichiarazioni di Kaizad fanno ancora più male: tutti inquinavano, tutti sapevano. Ma tanti, troppi, hanno chiuso gli occhi. E non basta. L’arrivo dei rifiuti tossici contribuì anche a scatenare la pirateria somala. Una teoria sostenuta dall’Unep (il programma dell’Onu per l’ambiente) e da alcuni analisti della Us Navy, che Kaizad sottoscrive in pieno: «Quando i pescatori locali uscivano in mare, si imbattevano in grandi navi che pescavano illegalmente – sottolinea Kaizad – oppure in imbarcazioni che affondavano fusti. Molti hanno perciò deciso di imbracciare le armi».
Uno scenario desolante, che tradisce le responsabilità dell’Occidente. Ed è una magra consolazione sapere che in seguito la situazione in Somalia è migliorata. «Ho avuto modo di constatarlo nel 2009, quando mi sono trovato a navigare da quelle parti – osserva Kaizad –. La missione internazionale anti pirateria ha consentito di pattugliare ampi tratti di mare». Le buone notizie, però, finiscono qui. «I trafficanti non si sono scoraggiati, si sono solo trasferiti altrove. Ad esempio sulle coste dell’Africa occidentale, dove i controlli sono praticamente assenti. Ci sono Paesi come la Guinea equatoriale che hanno solo due motovedette della guardia costiera. Impossibile presidiare centinaia di chilometri di costa... Attenzione anche alla Nigeria. Laggiù ci sono molte industrie del settore petrolchimico e ben poche regole. Facile disfarsi degli scarti senza grandi problemi».
È possibile che dietro questi traffici ci sia la mano della criminalità organizzata o delle organizzazioni terroristiche? «In Somalia i legami con le bande armate erano abbastanza evidenti, in West Africa si tratta di semplici affaristi senza scrupoli». Nella sua carriera Kaizad ha solcato anche il Mediterraneo. Ma preferisce non sbilanciarsi sui segreti custoditi dai fondali del mare nostrum. Si limita a osservare che è più difficile affondarvi veleni: «Forse qualcosa può essere accaduto negli anni Settanta-Ottanta. Ma ora ci sono tanti controlli, l’area è monitorata continuamente ». Meglio andare altrove per fare certe cose. L’Africa è dietro l’angolo.