Ciriaco De Mita - Ansa
È morto questa notte a Villa dei Pini, clinica di riabilitazione di Avellino, l'ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita. I funerali si terranno domani pomeriggio, venerdì, alle 18.30 nella Cattedrale di Nusco, il centro dell'Alta Irpinia di cui era stato eletto sindaco di recente per la seconda volta. Era stato ricoverato in seguito a un attacco ischemico il 10 aprile scorso al Moscati di Avellino; in precedenza era stato operato al femore, e per questo si trovava nella struttura di riabilitazione. Aveva 94 anni compiuti a febbraio scorso.
Una notizia che è motivo di «grande tristezza» per Sergio Mattarella, avvicinatosi all'impegno politico proprio sulla spinta di De Mita. E ricorda la morte di Roberto Ruffili, suo collaboratore attraverso la cui uccisione, «alla vigilia dell'insediamento del suo governo, la strategia brigatista intese colpire il suo disegno riformatore». Di lui il capo dello Stato ricorda la «dimensione cristiana», la visione della politica e l'impegno per il «rinnovamento» sulla scia del pensiero di Aldo Moro e anche la sua «visione internazionale» e i rapporti con Gorbaciov nel periodo in cui è stato a Palazzo Chigi.
Il «più sentito cordoglio» viene espresso, «a nome di tutto il governo» anche dal presidente del Consiglio Mario Draghi a un «protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana, fino all'ultimo impegnato nelle istituzioni locali». «Negli anni '80 dette spazio a una generazione di giovani dell'epoca, penso anche all'attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella e anche Romano Prodi, che iniziò il suo percorso all'Iri su sua spinta», ricorda il segretario del Pd Enrico Letta.
Lascia la moglie, Annamaria Scarinzi, che aveva conosciuto come impiegata della Dc di Avellino e i figli Antonia, conosciuta giornalista, Giuseppe (noto come dirigente sportivo, ex dirigente della Lazio), Floriana e Simona.
Protagonista della storia italiana del secolo scorso, fu certamente il più importante uomo politico degli anni 80, quelli che segnarono la fine degli anni di piombo e culminarono con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. È scomparso ancora in sella, come sindaco nel paese dell’Alta irpinia che gli aveva dato i natali, il 2 febbraio del 1928, che per due mandati, ormai anziano, lo aveva eletto primo cittadino, una prima volta nel maggio 2014, con un vero plebiscito (oltre 77%) per poi confermarlo nel 2019, a 91 anni compiuti.
Proveniente da una famiglia umile - padre sarto, madre casalinga - De Mita frequentò il liceo classico nella vicina Sant’Angelo dei Lombardi. La svolta della sua vita avviene grazie a una borsa di studio del Collegio Augustinianum che gli consente di andare a studiare all’Università Cattolica a Milano, dove si laurea in giurisprudenza, dove stringe i suoi primi sodalizi importanti e avvengono i primi decisivi incontri. In università diventa punto di riferimento di un gruppo di studenti del Sud, usciti dalle vicende della guerra e pieni di passione civile. Amici inseparabili sono il cosentino Riccardo Misasi (che sarà al suo fianco in tutti i principali incarichi politici e istituzionali) e il conterraneo Gerardo Bianco, con il quale però nel corso della loro carriera politica, le sorti si separeranno.
Un gruppo che può contare su solidi riferimenti spirituali, quali il direttore dell’Augustinianum don Mario Giavazzi e il vice don Filippo Franceschi (che sarà anche arcivescovo di Padova) Fra gli incontri politici, lo segnerà più di tutti quello con Giovanni Marcora, fondatore della sinistra di Base, insieme a Giovanni Galloni e Luigi Granelli, di cui sarà leader assoluto per circa 20 anni. De Mita diviene consulente presso l’ufficio legale Eni di Enrico Mattei, molto legato Marcora e alla corrente cui aveva dato vita. Nel 1956, a soli 28 anni, il primo incarico politico: diventa consigliere nazionale della Democrazia cristiana.
Francesco Cossiga con Ciriaco de Mita, - Ansa
L’elezione a deputato nel 1963, a 35 anni, eletto nella sua Irpinia dove un gruppo di giovani da lui guidato (che annovera fra gli altri Nicola Mancino, Giuseppe Gargani, Salverino De Vito, lo stesso Bianco, giornalisti come Biagio Agnes, che poi diventerà presidente della Rai, e Antonio Aurigemma) si ritrova sulle posizioni di Fiorentino Sullo (giovanissimo costituente irpino poi ministro dei Lavori pubblici e della Pubblica istruzione) prima di una dolorosa rottura registrata a fine anni 60, al termine della quale De Mita, affrancatosi dal suo leader di riferimento, inizia la sua ascesa. Con il cosiddetto «patto di san Ginesio», nel 1969, con un incontro in questo centro delle Merche, sigla una intesa generazionale con un altro quarantenne, militante nell’area moderata del partito, Arnaldo Forlani, che diviene giovane segretario con De Mita suo vice (1969-73). Sarà poi ministro dell’Industria nel quinto governo Rumor (1973-74), ministro del Commercio Estero nel quarto governo Moro (1974-76) e ministro del Mezzogiorno nei governi Andreotti del 1976-79.
Ma dopo la parentesi al governo torna alla politica, la sua vera passione, celebri, i suoi "ragionamendi", citati così per caricaturizzare la sua tipica inflessione dialettale, da "intellettuale della Magna Grecia", come lo definirà l’avvocato Gianni Agnelli. Da leader ora indiscusso della sinistra di Base nel 1979 torna vicesegretario. Alla guida della Dc ci arriva tre anni dopo, nel maggio del 1982, incoronato segretario con il 57% dei voti, grazie al decisivo sostegno di Flaminio Piccoli e Amintore Fanfani, che vedono in lui l’interprete di un rinnovamento e di un allargamento della base del partito che era stato preparato l’anno precedente con la "assemblea degli esterni", con la quale il partito cattolico aveva tentato di aprire alla vitalità dell’associazionismo cattolico e di intellettuali indipendenti.
Alla ventata di novità portata da De Mita si deve, come ricordato da Letta, l’ingresso sulla scena politica d Romano Prodi, che (dopo una breve parentesi da ministro dell’Industria "tecnico") è De Mita a volere nel 1982, appena eletto segretario, al vertice dell’Iri, il colosso delle Partecipazioni statali già in difficoltà. È lui, una volta rieletto alla segreteria nel 1984, a volere come commissario della Dc in Sicilia Sergio Mattarella, giurista fratello di Piersanti, il presidente della Regione siciliana assassinato nel gennaio del 1980 in un agguato mafioso avvenuto in un quadro di oscure complicità mai chiarito. Nel 1986 la terza elezione consecutiva, un vero record per un partito dai complessi equilibri come la Dc. Il suo astro è al culmine, ma crescono anche veleni e rivalità interne. Il suo obiettivo è quello di superare la degenerazione delle correnti per far vincere la politica, la progettualità e le riforme, ma l’accusa che gli viene mossa è di aver combattuto tutte le correnti tranne la sua.
Lasciata a lungo la guida del governo ai socialisti guidati dall’eterno rivale Bettino Craxi, nell’aprile del 1988 arriva per lui l’investitura a Palazzo Chigi, a gestire un complicatissimo doppio incarico, prendendo il timone dal giovane Giovanni Goria. È l’apoteosi della sua carriera politica, in realtà si rivela l’inizio del suo logoramento ad opera degli avversari interni in asse con il leader socialista, attraverso la sigla Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). In pochi mesi dal doppio incarico De Mita finisce per perdere entrambi. Nel congresso del febbraio del 1989 Forlani si riprende il partito. Tre mesi dopo l’ex "gemello" di San Ginesio, ospite da segretario della Dc del congresso socialista, sigla con Craxi il "patto del camper", a seguito di un faccia a faccia avvenuto, appunto, nel camper messo a disposizione dall'imprenditore barese Tommaso Fidanzia per gli incontri riservati, e parcheggiato nelle retrovie del congresso. Pochi giorni dopo, il 19 maggio, Craxi apre la crisi di governo, De Mita si dimette e a Palazzo Chigi, tre mesi dopo aver perso la guida di Piazza del Gesù, gli subentra Giulio Andreotti.
Fra i capolavori che gli vengono attribuiti nel lungo periodo di segreteria la tessitura che portò all’elezione di Francesco Cossiga, nel 1985 al primo scrutinio, con 752 voti su 977, forse con qualche successivo pentimento, durante la fase finale del settennato caratterizzato dalle "picconate". Il suo vero pallino, le riforme istituzionali, lo mette anche nel mirino delle Brigate Rosse che il 16 aprile del 1988 uccisero barbaramente in casa, introdottisi con un inganno, Roberto Ruffilli, il suo uomo delle riforme, perno del programma del governo da poco insediato. Ma, come emerso di recente lo stesso De Mita era stato al centro di una ipotesi di attentato, sventato con una brillante operazione portata a termine da due ufficiali dei Carabinieri (Domenico Di Petrillo ed Enrico Cataldi), grazie anche alla ruolo svolto dal collaboratore di giustizia Walter Di Cera (con il quale di recente aveva avuto un lungo colloquio a Nusco) che braccarono e arrestarono, dopo averlo riconosciuto, un pericoloso brigatista latitante, Antonino Fosso, detto "il Cobra", che nei pressi dell’abitazione romana di De Mita stava effettuando degli appostamenti con l’intento, considerato più che verosimile, di progettare un nuovo attacco al "cuore dello Stato", in coincidenza dei dieci anni dall’agguato di via Fani.
De Mita conserverà il prestigioso incarico di presidente del consiglio nazionale della Dc fino all’ottobre 1992. In settembre De Mita era stato eletto alla guida della Commissione Bicamerale delle Riforme, dove - prima di lasciare la guida a Nilde Iotti - cercò di portare avanti proprio il progetto di Ruffilli, che mirava a un rafforzamento dell’esecutivo attraverso un vincolo di coalizione che però salvaguardasse il pluralismo dei partiti.
Ma stava per arrivare il ciclone di Manipulite. La diaspora della Dc, nel 1994, lo vide aderire al Partito popolare italiano. Nel 1996, bocciata la sua candidatura in nome del vento del rinnovamento imposto al Ppi dal progetto ulivista di Prodi e dal Patto Segni, con una clamorosa rottura decise di partecipare alle elezioni politiche con una sua lista autonoma, denominata "Democrazia e libertà", risultando eletto. Fu di nuovo membro della commissione parlamentare per le riforme costituzionali (1997-1998) e tornò sotto l’egida del Ppi nel 1999, per la corsa a parlamentare europeo, conservando per un periodo il doppio seggio. Nel 2001 venne rieletto deputato con la Margherita e nel 2006 con l’Ulivo. Alle elezioni del 2008 si candidò come capolista in Campania al Senato per l’Udc, ma non fu eletto. Si rifarà nel 2009, eletto al Parlamento europeo. Le ultime soddisfazioni gliele darà il suo paese natale: nel 2014 viene eletto nelle liste dell’Udc, la riconferma, nel 2019, con la lista L’Italia è popolare, di cui era stato fra i promotori, in Campania.
Il suo rammarico più grande e il fiore all'occhiello di cui andava fiero, possono essere entrambi collocati alla fine della sua ascesa ai vertici delle istituzioni. Proprio nel 1988, nel periodo in cui assunse la carica di Presidente del consiglio, conservando la segreteria della Dc, una inchiesta avviata dal Giornale di Indro Montanelli lo mise nel mirino per il cosiddetto Irpiniagate, ossia lo spreco di risorse stanziate per la ricostruzione dopo il terremoto di Campania e Basilicata del novembre 1980. In realtà. come portò alla luce una Commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro sprechi e corruzione andarono ben oltre il perimetro ristretto dell’Irpinia, la provincia di De Mita che aveva riportato i danni più devastanti. Tuttavia l’inchiesta, pur portando alla luce sprechi e corruzione su larga scala a livello politico e territoriale, fu usata unicamente contro di lui per demolire l’immagine di innovatore in politica, che si era dato ma era ormai in declino.
Ed ecco il fiore all'occhiello. Risalgono a quello stesso periodo vissuto a Palazzo Chigi i rapporti che ebbe modo di stringere con Mikhail Gorbaciov e con il Papa Giovanni Paolo II (che, ricordava, una volta lo volle incontrare «per farsi spiegare la Democrazia cristiana»), in un fase in cui le sorti dell’umanità sembravano andare decisamente verso un futuro migliore rispetto a quello che vediamo in questi giorni. In un discorso che alla Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica il 15 ottobre 1988 parlò della «necessità e speranza» di «mettere progressivamente fine alle guerre». Riprendendo il concetto di "Casa Comune" elaborato da Gorbaciov, in linea con l'idea di "Europa a due polmoni" evocata da papa Wojtyla, De Mita disse che essa non poteva «limitarsi all’Europa geografica», ma andava «allargata ai due grandi Paesi situati sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico e in prospettiva al mondo intero». Era in arrivo l’Europa di Maastricht, «un vero mercato interno senza barriere tra tutti i Paesi della Comunità Europea», ma «è necessario che la grande potenza economica della Comunità non si regga sulle gambe di un nano politico». Di recente riandando a quella fase si era trovato a dare ragione al presidente francese Mitterand, che riteneva sbagliato andare a una unità monetaria senza aver prima sancito una unità politica. «Kohl invece sosteneva che essa sarebbe venuta di conseguenza, ma purtroppo aveva ragione Mitterand», constatava amaramente.
L’avvio dei rapporti diretti tra la Comunità Europea e l’Unione Sovietica era una prospettiva nuova, ma in realtà preparata sin dal 1975, quando Aldo Moro firmò da presidente del Consiglio e presidente di turno della Comunità europea l’Atto Finale della Conferenza di Helsinki. «Sin da allora i Paesi europei occidentali ritenevano infatti che la Comunità Europea potesse e dovesse avere un grande ruolo nello sviluppo dei rapporti Est-Ovest. Vecchie frontiere che sembravano di ferro si rivelano di cartapesta», disse in quel celebre discorso. Ma «un processo di integrazione e rafforzamento economico in Europa, se privo di un disegno politico, potrebbe creare tendenze centrifughe. Con il rischio di grossi e improvvisi squilibri, tali da invertire brutalmente il processo». Si tratta di andare molto al di là del problema di come ridurre carri armati o divisioni di fanteria», disse. Occorrono «nuove formule, che vorremmo più difensive che offensive, meno minacciose di quelle attuali», Perché «la presenza di tanti armamenti che si fronteggiano fra Est e Ovest ci impone responsabilità nel definire iniziative lungimiranti. Il nostro obiettivo è quello di far crescere la fiducia reciproca. Solo in questo modo potremmo anche arrivare a ridurre i nostri armamenti». Mentre «riduzioni basate sul sospetto o sul timore possono essere facilmente aggirate, e comunque sono destinate a creare una situazione più pericolosa e instabile». «L’accordo, concluso a Washington per eliminare gli euromissili, a Est e a Ovest, ci conferma della giustezza di questa linea».
«Una maggiore integrazione militare in Europa occidentale è anche funzionale in un quadro di migliori rapporti Est-Ovest», disse ancora, con parole che si rivelano oggi di straordinaria attualità. Evocò per la Russia un nuovo Piano Marshall. «Mi pare - disse - che sia giunto il tempo in cui possa applicarsi alle opere di pace tutta l’intelligenza riversata nell'elaborazione di sistemi di guerra e di istituzioni repressive. Sono secoli di storia sui quali riflettere per compiere una vera inversione che possa portarci a un sistema di civiltà diverso». Purtroppo non è andata così.
Il suo auspicio, per il futuro del Paese, era che la gente tornasse a capire il valore della politica, la sua passione di una vita. «Soprattutto le esperienze del cattolicesimo popolare dovrebbero cogliere quanto sia delicato il momento che viviamo. Alle prossime elezioni ci sarà bisogno di una forza politica che riempia il vuoto di rappresentanza di quella parte di società che aspira al cambiamento, ma rifiuta le avventure», disse in un recente colloquio con il nostro giornale. Perché la democrazia è come una pietra preziosa, ma non è per sempre. «Ho passato una vita nella convinzione che fosse una condizione acquisita. Inizio a pensare che sia solo una stagione della storia, la democrazia. Solo il ritorno della politica come passione per la vita della comunità potrà evitarlo».