venerdì 6 settembre 2024
Youssef Barsom è deceduto in cella per un incendio la cui dinamica è ancora da chiarire. L’ex tutrice: "Ragazzo con fragilità mentali, come poteva stare nel carcere più sovraffollato?"
Youssef Mokhtar Loka Barsom nella comunità educativa di Pinerolo Po (Pavia)

Youssef Mokhtar Loka Barsom nella comunità educativa di Pinerolo Po (Pavia)

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Aveva compiuto 18 anni da pochi mesi ed è morto carbonizzato a Milano, nella cella del carcere di San Vittore – il più sovraffollato d’Italia – dove era recluso in attesa del processo. Tutto è capitato velocemente, di notte, tra giovedì e venerdì. Un incendio è divampato, probabilmente da un materasso, nella stanza che Youssef Mokhtar Loka Barsom, di origini egiziane, condivideva con un altro detenuto, che è riuscito a salvarsi ed è ora indagato. Forse le fiamme sono state innescate dai detenuti stessi per protesta o forse per un tragico incidente: la dinamica esatta – che presuppone anzitutto il capire come un accendino possa essere finito in cella – deve ancora essere chiarita dai pm di Milano che hanno aperto un’indagine ma intanto la morte di Youssef aggiunge una ennesima linea, destinata a non essere l’ultima, nei rapporti che fotografano la situazione dei penitenziari italiani e che assomigliano ormai in tutto e per tutto – ha dichiarato Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria – a un «bollettino di guerra».

Suicidi e sovraffollamento: San Vittore maglia nera

Come contraddirlo: alla voce “suicidi” se ne contano ormai 70 a cui si aggiungono 7 agenti di polizia che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno; mentre, al 31 agosto, erano 61.758 i ristretti nelle carceri, che potrebbero accoglierne al massimo 50.911. In cima alla lista dei penitenziari più affollati c’è proprio San Vittore, il carcere della città locomotiva del Paese che è ultima nella classifica della dignità. Qui sono stipati 1.094 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare che i dati ministeriali indicano in 749 ma che nei fatti si fermerebbe a 448 visto che molte camere – e in alcuni casi, intere sezioni – risultano inagibili portando l’indice di sovraffollamento intorno al 245%. «I detenuti – aggiunge un tassello De Fazio – sono sorvegliati da 580 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, distribuiti su più turni e compresi gli addetti agli uffici e ai servizi vari, rispetto a un fabbisogno di almeno 700, con una scopertura del 17%». Un organico sottodimensionato che ha fatto sì che, mentre Youssef andava letteralmente a fuoco, nessuno se ne sia accorto in tempo.

Spazi piccoli, sovraffollati e fatiscenti sono un problema per tutti ma ancora di più per chi, come Youssef, soffriva di fragilità psichiche evidenti e accertate da due perizie disposte dai giudici che lo avevano assolto per «vizio totale di mente» in altrettanti procedimenti a suo carico quando era ancora minorenne. A San Vittore si trovava dallo scorso marzo, quando era stato arrestato con l’accusa di rapina, dopo essere scappato da una comunità terapeutica in cui era stato da poco inserito dopo una lunga attesa. Il diciottenne era dunque in custodia cautelare e attendeva il processo con cui, se fosse stato ritenuto colpevole, sarebbe stato condannato.

Il trauma dei lagher libici e la fragilità mentale non trattata

Nato in Egitto il 5 febbraio del 2006, Youssef era sbarcato a Lampedusa nel luglio del 2022 come minore non accompagnato. Passando dalla Libia era stato catturato dai trafficanti, abusato e costretto a bere così tanta acqua contaminata che il fisico ne aveva risentito anche all’arrivo in Italia, dove era stato segnalato e poi spostato da una comunità all’altra della provincia di Milano. Di Youssef ci parla commossa Chiara Poletti che per due anni ne è stata la tutrice legale. «Confrontandoci con la famiglia (il fratello abitava proprio nel Milanese, ndr) sapevamo che Youssef ha sempre avuto qualche difficoltà ma sicuramente il suo percorso migratorio ha acuito il trauma. Aveva bisogno di una comunità terapeutica, pensata apposta per ragazzi con fragilità, ma per lui non c’era mai posto: era una persona di serie B. Finalmente, dopo molti mesi, insieme agli assistenti sociali siamo riusciti a trovargli un posto. Era troppo tardi: quando stai male hai bisogno di essere curato subito e nel frattempo, come qualsiasi altra malattia fisica, le sue condizioni mentali si erano aggravate molto. E così, in un momento di agitazione, Youssef è scappato dalla comunità».

"Dolore e rabbia"

Mentre ancora aspettava di entrarci invece, Youssef aveva frequentato altri minori non accompagnati e altrettanto fragili, aumentando il rischio di farsi del male e di delinquere. Tra giugno e ottobre 2023 era finito così, per piccoli furti, nel carcere minorile Beccaria dove erano anche iniziati i primi episodi autolesionisti. «Si tagliava dappertutto – ricorda Poletti, che lo andava a trovare – le braccia e persino le dita dei piedi. Io mi chiedevo: ma come può accedere a questi strumenti in un carcere? Aveva bisogno di aiuto e il sistema non è stato in grado di darglielo. Oggi, oltre al dolore, c’è anche tanta rabbia. Quello che è successo a Youssef è ingiusto. Come poteva un ragazzo così stare in un carcere tanto sovraffollato, con un tasso di suicidi elevatissimo e senza nessuno a seguirlo?».

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